venerdì 14 maggio 2010

Nox est perpetua una dormienda

Ti è piaciuta la dolce vita?
No, non è un'aggressiva campagna promozionale per l'astinenza da crociera ma una lecita domanda, Ennio Flaiano ha scritto questi due racconti mentre collaborava a soggetto e sceneggiatura del capolavoro Felliniano ed è quindi ovvio che i due testi s’influenzino moltissimo tra loro, se non ci credete, chiedetelo ad un mostro marino spiaggiato sul lido laziale.
Una e una e una notte fanno due.
Sono l'yin e lo yang questi due racconti, il negativo e il positivo della stessa fotografia melanconica e fatiscente di una decadenza languida: quella della città vuota piena di lustrini e paillettes e quella del mare in autunno il giorno dopo l'abbandono dei bagnanti.
La Roma della dolce vita di via Veneto e dei caffè è appena accennata nel racconto numero due "Adriano" ed è impassibile e di sfondo nel primo che da il titolo al volume; una splendida Roma triste che ha la bellezza languida di una donna di sbieco su un sofà, sorniona e imperturbabile, lei, che non si concederà mai ma si lascerà ammirare. Bellissima, come tutto ciò che non si può avere.
Poi c’è un altro mondo, la campagna laziale e il suo mare invernale, il lido di Ostia e poi ancora più giù, pescatori con le loro mitologie vecchie e nuovissime, sirene e tv, in un mare d’inverno dalle tinte seppiate, location ideale per chi ha paura del foglio bianco, di chi lo ingiallisce un po’ per poterlo ammansire cosicché non morda.
È nel lido che si compiono i miracoli, bisogna lasciare Anita Ekberg bagnarsi da sola alla fontana, bisogna andare verso il mare per capire quello che Sherazade raccontava, per viverle, le avventure e ritrovarsi ad incontrare l’alieno e scoprirsi i veri alieni così, scrittori di una pagina che mai ha visto la luce ed appagati da prostitute/amiche compiacenti che guardano la terra dall’alto e a nient’altro aspirano che a tornare affinché la loro pagina rimanga intonsa.
Una notte, e una notte e una notte ancora, nox est perpetua una dormienda, Catullo, sì e il suo otium, abbandonato anche lui mollemente tra le lapidi di una necropoli romana con i nomi di patrizi obliati e pellegrini di un santuario di campagna anch’essi fellianiani (o flaianei ?) inconsapevoli e maestosi nella loro faccia di terracotta o faccia di alieni, c’est a vous.
Piovono riferimenti continui è una scrittura sempre altissima quella di Flaiano, una mano di acquerello su un mondo dai contorni nettissimi utile a stemperare l’icasticità del mondo esterno con un’ottima dose d’interiorità melanconica.
La malinconia da sciogliersi zolletta a zolletta nel calore di un tè di acqua dl mare d’inverno bevuto in un’altra galassia.

Una e una notte
Ennio Flaiano
Adelphi 2006

martedì 11 maggio 2010

Come sono quando pensi a me?


Sempre è difficile essere la compagna di una vita se la vita è quella di chi con le parole ci vive, tocca stare muti e arrendersi un po' ogni giorno per non uccidere.
Ed eccoci amore, in questa cucina con l'angolo del tavolo illuminato solo da quell'abbaino, tu mi hai insegnato, amore, molti anni fa, quando i capelli mi sfuggivano dal nodo incroccicchiato in cima alla testa, che era bello perché era uguale ad abitare in un Caravaggio quando si convertiva Matteo e io ridevo, con gli occhi grandi, dicevi, e ti chiedevo che cosa dovesse convertire questo Matteo, tu rispondevi "sesterzi in fiorini" e io ridevo ancora.
Ti parevo una musa dalle mani in un'apnea di lavello e schiuma per piatti, poi me le asciugavi, le mani, con gli strofinacci a quadretti e ti toglievi la penna dalla bocca per baciarmi le labbra; un movimento naturale, il tuo, prima che un'altra metafora t'inciampasse negli occhi e ti allontanassi per segnarla su un foglio e allora mi parevi Leonardo più che Pessoa, io te lo dicevo e ridevi tu.

Come sono quando pensi a me?


Me lo sono sempre chiesta in questi trent'anni da quando mi hai portata qui in un sottotetto dalla campagna provenzale, anche se io questa Provenza non l'ho mai vista, mi hai detto che ero il centro di ogni tua idea, che non avevi visto mai grano più dorato dei miei capelli e che avresti voluto mangiarmi così che fossi il tuo pane quotidiano, e io avevo sgranato gli occhi, verde prato, avevi detto tu con parole molto più belle di queste ma la mia mente non è come la tua, io non posso ricordarle.
Gli specchi mi mentivano e io fino ad allora ero convinta di avere i capelli e gli occhi neri come la notte e il luogo dove vivevo era arido e bruciato dal sole come la mia pelle, la verità stava in una goccia d'inchiostro ancora dentro la tua penna.
Ha piovuto tanto nei nostri occhi, anche quando sussurravi il mio nome, quelle due sillabe che avevi inventato tu, il mio era lungo e cacofonico, dicevi e io non lo ricordo più, è sempre stato quello da allora, due sillabe, perché la metrica della confidenza non si guastasse.

Come sono quando pensi a me?


Qualcosa che non si crea, il suo centro.
Forse solo l'eco di due sillabe, sono i contorni di un centro che è tuo, sei tu quello che ho trovato stamattina, quando facevo il tè per entrambi uguale uguale a trent'anni fa in balia di una rima che allacci anche questo come trent'anni fa, o il tempo è fermo o sono io che vedo i tuoi capelli incanutirsi e il tuo respiro andarsene.
Però, sai amore, la tua ombra ha una forma diversa come se si fosse spostata, come se fosse in bilico tra qui e un altrove in cui non mi posso specchiare, forse dove avrò di nuovo i capelli neri come l'ala del corvo o, ora, bianchi, o il tempo è fermo o sbuco da un riflesso di pazzia.
Mi sento dissolvere, le mani per prime, tanto che no, la tazza non la posso trattenere e si spacca per terra con un fragore da castello in aria che crolla.

Come sono quando pensi a me?


Se nei tuoi occhi c'è la nebbia anche io mi dissolvo, l'esistenza donata, creata ogni giorno dalle tue parole, l'alternativa è la mia non esistenza, di sole parole vive la moglie del poeta e io mi sento dissolvere, il logos creatore impronunciato, il silenzio che mi toglie anche le gambe addosso, la carta bianca che mi lascia gruccia di un vestito alla moda provenzale.
Seppellita in una risma di carta candida, amore, ghiacciata dal Generale Inverno, mi piaceva quando di fronte al camino mi raccontavi di Napoleone e di Waterloo, mi piacevano le storie delle sconfitte perché poi, anche nel mio silenzio, avevo il privilegio di avere un grembo utile alla consolazione.
Io che non ero triste mai perché la tristezza la mettevamo nel barattolo dei biscotti, spicciolo a spicciolo non appena ce la trovavamo in tasca, per i periodi di magra doveva servire, per quando non ne avevi abbastanza per intingervi il pennino.

Come sono quando pensi a me?


SILENZIO.


potessi amore, esser nemmeno una donna, ma il punto esatto del foglio dove ti scivola nero il tratto di penna.