mercoledì 30 novembre 2011

Semplicemente ci ameremo con un po' di ironia (metarecensione o recensione a metà)

Un treno: Bologna-Milano, un romanzo, questo. Il pensiero a Icaro, quello involato (ed era facile). Poi inizi a leggere e sorridi perché pensi sia un intreccio geniale, esplicito.
Tuo fratello quando era piccolo, smontava i giochi per vedere cosa c'era dentro, per capire cosa li muovesse, pare che De Roma faccia col libro la stessa operazione. Un romanzo con dentro un romanzo, con personaggi dove anche il narratore/autore viene trascinato in doppia forma.
E allora tocchi col gomito il tuo compagno di viaggio, gli fai leggere una parte e forse i suoi personaggi, quelli che seguiva prima di alzare la testa dalla sua lettura, si mischiano per un momento con l'angelo storpio, con il presentatore decaduto e il fighetto di periferia assiso alla TV spazzatura.
Così a Roma nevica sotto Natale e questo è più straordinario di un angelo caduto e della restituita coscienza ai personaggi. E forse quel viaggio lo stai facendo anche tu come puntata di un romanzo e non sai se è un capitolo iniziale, se sei a metà, se è il climax o la conclusione, non lo sai com'è il tuo romanzo perché i personaggi dei romanzi non sanno mai nulla, non sanno di essere personaggi.
Tranne qui.
Gli è stata restituita la coscienza,c'è sempre un dettaglio, magari distratto, tra le pagine di un enciclopedia o la copertina con un pappagallo che ti fa chiedere un mese dopo "chissà come andava a finire la storia di Nello poi".
Ti sei messo il cd nuovo di pacca degli Smiths, perché certi viaggi non si possono fare da soli, neanche stando fermi così da perderti nell'intreccio tra il contemporaneo dove vive la TV spazzatura e i personaggi che tentano l'ascesa platonica alla luce, oltre la caverna. Prendere coscienza solo nel silenzio, in una dissipatione (HG) si è personaggi in totale balia di qualcuno che ti scrive, che ti racconta e forse sempre così, "una, nessuna e centomila" volte, qualcuno ci scrive anche adesso.
Non una divinità, non un essere superiore onniscente, ma gli altri personaggi stessi, quando tentano di prendere il controllo di qualcosa che non possono controllare, che non sanno controllare.
Loro non sanno.
E noi sappiamo?
Romanzo meraviglioso, complesso, non immediato ma allo stesso tempo fruibile, un metaromanzo che vive di vita propria. Il libero arbitrio non c'è, il libero arbitrio è sepolto nel silenzio di una coltre di neve a piazza Navona.

Quando tutto tace
di Alessandro De Roma
Bompiani, 2011

venerdì 21 ottobre 2011

Pseudo Inno Omerico ad Eros

Ti cerco, nell'ansimo urlato del mattino di città,
io ti cerco
dopo notti insonni senza nome
dove il solo calice che alzo è quello alla lontananza
brindando al vuoto dell'assenza,
raggelante,
con braccia troppo corte per arrivare a scaldarci.

Io ti cerco, Alpha e Omega, nelle notti senza canto
dove i grilli ammutoliscono per assistere all'unione
che è quella più pura
delle palpebre congelate non aperte
perché quello che vedrebbero sarebbe bianco
e solo.

Io ti acclamo per arrivare ad annusarti fino all'osso
per leccarti via il male dalle tibie
come il veleno di vipera, per non impazzire
in una nuova e vuota alba opalescente
(opalescente è sempre un bel colore)
dove Febo rincorre, in ritardo
(come ci piace tutto ciò che è popolare)
fino all'ultimo gemere del giorno.

Io ti chiamo per nome:
Centauro scuro
notturno angelo del desiderio
Io ti chiamo per nome
Amico
Amante
Amore.

Erba secca e sudore,
mani piccole e vino rosso
schianti di sirene per rallentare il tempo
che ogni minuto valga cento ore
e ne vengano aggiunte cento in sovrappiù
per non fermare il canto.

Io ti rincorro,
alato figlio di Venere,
nato dal mare, come me,
ma dall'altra parte del giorno
figlio dell'alba, tu sei,
come io lo sono del tramonto.

Io ti seguo umana e bellissima imperfezione
dove vorrai portarmi
fino alla fine del tempo.

lunedì 19 settembre 2011

I’m waiting for eternity

Una notte ha piovuto arcobaleni dalle pareti ed è stato bello lo stesso.

Quella notte in basso nelle tasche c'era un po' di perfezione da bruciare via un tiro dopo.

È stato il momento esatto prima di sempre che tutto era chiaro e capire fa sempre un po' male in fondo allo stomaco, come quando si nasce, come quando si esiste e si ha la sensazione che la propria essenza sia un latrocinio a qualcun altro.

  • Non è tua la colpa, amico mio, se puzzo d'infinito e non mi basta quello che posso vedere attraverso le tue pareti di cristallo.

Io una volta l'infinito l'ho guardato negli occhi ed erano troppo belli per restare soli, così gli ho tenuto compagnia cullandoli una notte intera o giù di lì.

Non si può dire addio più d'una volta, se no si direbbe arrivederci perciò ho in mano questo percorso, c'è scritto:

Per i poeti che intessono fili di ragno in testa alle muse seguire l'infinito e io l'ho fatto, un'altra volta, ma la più vera.


 

Così mi sono ritrovata a pettinare capelli di piuma mentre sorridevo al primo mattino, sana, tutti i tasselli al loro posto in quello che il mondo chiamerebbe un errore e poi ho pianto, così, tanto per gradire.

Bisogna lasciare la possibilità di volare per sentirsi legati ad un ramo che è quello giusto solo per un breve planare o per l'attraversata atlantica.

Troppo caldo sulla schiena gocciolante, la tua, l'altra invece pronta all'abbandono troppe volte negato ma le cose belle durano una vita di farfalla, poi inizia il tempo delle cose e basta.

Batteremo le ali ancora in altre mille vite,le batteremo perché abbiamo imparato a volare buttandoci dai grattacieli e così il vento non soffia mai da una parte sola e ci farà sbattere l'uno contro l'altro.

Loro due ci aspettano, laggiù dove tu sai, per bruciare imperterriti all'ombra di un altro fuoco.

martedì 1 marzo 2011

Mononotte

Finiscono sempre dall'inizio le mononotti, coi piedi sul muro per tastarne la presa, "in verticale non si può camminare" la risposta che non vuoi darti.

Le mononotti sono cieche buio e penombra a saggiarne la consistenza, si muovono su accoppiamenti vetusti come "cuore/amore" poi controllano per bene, come esperti dentisti, il cavo orale del lupo che digerisce la bambina dalla mantellina rossa e sentenziano che l'unione non s'ha da fare: per gentile concessione delle (non)luminari(e), il primo può battere forte fino a bussare alle porte della gola, lì, nella casa abbandonata delle tonsille amputate, il secondo anche può battere forte, in ritirata.

Ti accorgi che è mononotte quando i lumi vengono spenti contro la loro natura e che accessi, i lumi non vogliono stare mai per pudore ed empatia o quando stanno accesi, quei lumi, non possono far altro che assistere, ondulatori, agli accadimenti che portano le mononotti.

Sono tristi, le mononotti, disperate, spesso, vengono sempre da sole e vanno via con precisione prima del brindisi dell'addio, che non s'alzino i calici, che non si srotolino i liquidi.

Mai.


 


 

C'è stato un tempo in qui ci davamo del noi, quando le notti le sognavamo e basta, quando le notti le piangevamo e basta senza diritto alcuno nella speranza, senza rovescio debole di medaglia.

C'è stato un tempo in cui le notti danzavano e volevamo che passassero in fretta, che un altro giorno arrivasse con un'altra notte in groppa e che fosse una delle nostre, notti impilate che si potevano chiamare tali e, io e te, in quel tempo, ci davamo del noi.

Potevamo anche leccarci via i mugugni dalla labbra nel tempo delle notti susseguite, vicendevolmente perfino, senza tremore, le notti quando sono tante si abbracciano a vicenda, l'unica cosa che non sanno fare, le mononotti è abbracciare il prossimo loro troppo concentrate a brillare per sé stesse di buio proprio e di ciechi guaiti.

Cercano l'estasi momentanea, le mononotti, o la rifuggono per splendere di vago eroismo, non capiscono, le mononotti, che a volte è solo una stretta a creare l'unione, non l'incastro, che bastano due mononotti per fondersi in due notti consanguinee, siamesi, la differenza sta nella possibilità di evitare la veglia perché qualcuno la fa per te.

Le notti del sussurro e le mononotti dell'urlo, ecco la novità.


 


 

Continuano a esistere le mononotti, per correre via feline alla prima alba, per lasciarti in bocca il sapore dello smarrimento e del "non ero io" che l'unica cosa che vuoi sono più notti, da chi non li guarda neanche, i tuoi occhi, di chi non ti da la possibilità neanche di scegliere le parole giuste da scandire per aprioristico errore.

Così ti rimangono le mononotti e il freddo delle stanze dell'indomani e le possibilità negate e le parole morte legate ai rami del rifiuto.

Così ti rimangono le mononotti e i baci spediti agli indirizzi sconosciuti.

lunedì 21 febbraio 2011

Tutt’al più.

Così mi sono svegliata una mattina e non avevo più niente da provare, forse perché tutto (o quasi) era stato provato e forse perché tutto (o quasi) era stato indossato troppo intensamente, rimirato allo specchio, usato e consumato.

Sì, intensamente.

(La mia coscienza paroliera non vuole che si usino gli avverbi, lui ha fatto un tuffo in una piscina di rimmel, mi perdonerà per il disuso di formule non mie, tanto l'oro non lo trovo neanche oggi, sono un'alchimista di smalto e fuffa io, tutt'al più riuso e sintetizzo.)

Acidi e alcolidi, sapessi cosa sono già sarei bella che curata.

L'apatia, declinata in indifferenza, sintomi chiari e fastidio perpetuo, ronzio atemporale.

Ho provato anche di nuovo le unghie livide, blu fiorentino, come a Palazzo Vecchio.

Quando l'unico pensiero era Caravaggio, Michelangelo tutt'al più, Botticelli, invece, mi pensava lui; Dante declamava e Dente nelle orecchie, tutt'al più gli Amor Fou, Boccaccio non lo ascoltavo, mi ascoltava lui sproloquiare di Petrarca.

Il risultato ottenuto è stato il Niente, lettera di un maiuscolo nichilista, come se la pelle non mi rispondesse neanche se interpellata, urlata a giudizio.

Eppure io un tempo piangevo, la via delle lacrime è tracciata dai rivoli: guancia destra e sinistra, non avrebbero neanche da scavare, e pure le fossette per sorriderci dentro a quel fiume sono state scalpellate cosa resta se non l'impossibilità di usarle?


 

Mi sono semplicemente dimenticata come si fa, più comoda è una stanza di bombardamenti atomici, di orecchie trapanate dall'impossibilità, di nasi otturati al ricordo.

Illudersi che possa provocare un po' di sofferenza, l'assenza, porta per conseguenza la disillusione di non sentirla affatto.

È stato un movimento lentissimo, tanto che non l'ho percepito fino a che non è finito: prima la mano destra s'è poggiata sulla stessa spalla e ha preso per un lembo l'elastico, la spalla s'è piegata di conseguenza e il nastro è scorso lungo tutto il braccio, indecisa, ho provato a trattenerlo sul polso, a pesarlo, vedere se rimandarlo indietro con lo stesso movimento ma al contrario.

È scivolato lungo la mano, palmo, dita, non più.

Sfilare l'altra parte è stato più semplice, è bastato strapparla via con la mano destra libera, un colpo secco.

Mi sono rimaste in mano, così, le ali.

Piegate e messe in tasca.

Mi preparo un post-it

Le ali le hai messe in tasca

Lo attacco alla testa del letto, visto mai che mi cresca un grattacielo sotto mentre dormo e dovessero servire all'abbisogna.


 

La tendenza è quella di essere smemorati quando si è indifferenti e sorridersi di circostanza allo specchio, appena conoscenti, spazzolino in bocca e parlare del tempo, un gargarismo per illustrare la crisi e spazzolarsi i capelli raccontandosi che le nuove generazioni hanno sempre meno valori, la ben nota svalutazione giovanile, l'ha scritto anche il Sole 24 ore.

E poi correre a chiudermi l'ascensore alle spalle per fare più in fretta di me, fastidioso fare tre piani con così inconsistente compagnia.

Ho dimenticato in casa l'accendino, e con questo sono cinque, ma non si torna nel luogo del delitto, non subito, mi scoprirebbero, ne comprerò un altro, lo voglio giallo.

Provo a tuffarmi ancora molto bene, non serve, neanche questo, eppure un tempo maceravo con i tuffi olimpici.

La giuria vota:

3.8 4.2 6.9

L'ultimo giudice è cieco.

Potevo approfittare del trampolino per volare via, forse.


 


 

Dove ho detto che ho messo le ali?

giovedì 27 gennaio 2011

Antropophagus (ovvero del ritornare in auge dopo così poco tempo, neanche si fosse un movimento artistico, una moda, una mania)

  • Com'eravamo belli, ti ricordi?

(Ed è qui che pare all'autore che l'unica dimensione pertinente sia quella dell'oblio)

  • quant'eravamo belli, sì, certo certo, eravamo belli perché non eravamo noi.


 

Come se il tempo ci scorresse addosso come l'acqua, che tutto lava, come se tutto fosse cambiato e ritrovarsi uguali come quella volta che le mani ce l'eravamo lavate con l'acqua sì, ma degli occhi.

Quanto eravamo belli.

Eravamo così belli dal non poterci guardare accecati, eravamo tanto belli da non sentirci stonare cantando ed era tanto tempo fa.

Non ce lo possiamo ricordare perché eravamo altri di noi in corpi simili,

  • faccio dell'oblio per cena, amore
  • grazie cara, ne prendo due piatti.

E così andarsi avanti a sopravvivere nelle proprie miserie, nelle minestre di finzione, con spruzzate di parmigiana indifferenza, perché è un sapiente ingrediente che pare indispensabile per non implodere.

Quindi far tintinnare i bicchieri alla salute di un altro ingorgo

  • Alla nostra?
  • Alla tua, mia cara, tutta tua e te la porgo da sbucciare pelle per pelle questa cipolla, come pegno di stoltezza.
  • Alla nostra, stavolta?
  • No, cara, tutta tua anche la stoltezza.

E poi ringraziarsi brindando.


 

Eppure nei libri c'era scritto che si era imparato come si sopravvive, che non si ripetono due volte gli stessi errori, che non si fa un altro frontale sulla stessa macchina, oppure sì, finché non la si distrugge, questo invece lo si legge nei dischi.

Ed è solo un errore del darwinismo, il nostro antipasto.


 

  • Cosa vogliono, cara, quegli occhi alle finestre?
  • Quello che tu non vuoi
  • E tu cosa vuoi?
  • Io non voglio loro.

In fondo è sempre colpa degli spaghetti se non si arrotolano sulla forchetta, intanto è sempre colpa dei tramonti se è necessario accendere le candele per guardarsi allo specchio.

  • Come sto amore?
  • Un altro ti troverebbe bellissima.
  • E tu come mi trovi?
  • Io non ti cerco.

Realizzare che si è lì per un altro rito che le Moire apparecchiano, mai che si tessessero le loro tovaglie d'attesa quelle altre, tutto così talmente lampante da dover essere disatteso per partito preso o per sfidare la sorte ma, a lei, non piacciono le sfide.


 

E così stiamo a guardarci in desueti occhi di bambola a soffiare le candeline della torta davanti a noi

  • Sono tre, una per me, una per te e una avanza, una avanza sempre, è per quello che siamo dispari?
  • Certo, siamo due uni. Buon compledanno.

E poi passa il tempo in orologi senza lancette che tanto è relativo ed è più facile immaginarselo il tic tac.


 

  • Ecco il tuo oblio, amore.
  • Cara che buono, ma cosa ci hai messo?
  • Un pezzo grosso di cuore, fegato spappolato, polmoni interrotti, succo d'occhi
  • E poi?
  • E poi, se avessi ancora fame, anche una bella fetta di culo.

E quindi ho messo le mani in tasca

Ed ho sputato sulla tavola

Buon appetito amore mio