domenica 31 gennaio 2010

Un paese ci vuole, non fosse altro che per il gusto di andarsene via

E poi, allora, la vita è un nostòs.
Per dire di questo libro mi rifarò ai Simboli come l'autore, poiché esiste ciò che è tanto e ciò che è troppo e Pavese è la somma di questi due, io sono piccolina e il mondo no, non riesco ad abbracciarlo tutto.
Per cui niente dirò di quello che potete trovare nelle migliori antologie: del tessuto lessicale che si rifà ad un parlato regionale ma senza fargli il verso né essere mimetico, non scriverò nulla della lirica altissima di alcune parti, né tantomeno parlerò della prosa piana e tranquilla ma cesellata finemente.
Dirò solo del dolore del ritorno in una realtà che non è idillica e che mai lo è stata, una passeggiata tra morti indimeticati presi per mano da un suonatore Jones che ha scelto di non suonare tutta la vita, di appenderli al chiodo, gli strumenti, di non arrivare suonando alla sua Spoon River.
C'è che uno, magari, questo libro lo legge quando è ragazzino e lo trova bello ma non se n'è mai andato dalle sue personali Langhe, c'è poi che, magari, uno questo libro per varie vicissitudini, proprio la stessa persona, proprio per vari motivi, lo va a rileggere da adulto, mettiamo, non so, tipo dopo una decina d'anni e al di là del mare.
E allora sì che il Simbolo ha senso, tutto diventa un Simbolo, un ritorno, un pensiero a.
Il romanzo stesso diventa dunque Simbolo per esso stesso, come la collina della Gaminella, trascendendo al metasimbolico quando dalle proprie, personali, Langhe ci si allontana per finire in un posto dove si sente la voce dell'autore in pancia nell'impossibilità di dire: "Per male che vada mi conoscete, per male che vada lasciatemi vivere" proprio come se improvvisamente si fosse ventriloqui, così, per nostalgia.
E il ritorno, ah, il nostòs....
Possibilità remota ed agognata ma solo per vedere in che melma si affondano le radici, ché sono l'ultima cosa che si guarda di un albero, normalmente si alza la testa laddove gli uccelli fanno il nido e più si cresce e più e a distanza dalla terra.
Però ogni tanto dal ramo più alto uno vorrebbe tornarci in quel fango, misero, sporco, sempre uguale a sé stesso nel suo mutare incessante di personaggi per vedere da dov'è che attinge per capire dove sta andando.
Ci trova solo odore di scorrere di stagioni sempre nello stesso ordine, mai una volta che ad un autunno succeda una primavera, ci trova quello che aveva lasciato ma sempre con qualcuno in meno e morto sempre in un modo peggiore di quello di prima, ci trova sempre la stessa luna (e, così, en passant, ci si ricorda pure di quanto tempo non la si guarda in faccia) e sempre gli stessi falò.
Il falò del fuoco, il purificatore, quello che brucia tutto, anche la miseria, anche i muri e le "cagnette del boia", perché il fuoco fa bene alla terra ed è il suo cibo, perché il fuoco alla notte di San Giovanni lo conosce anche chi ha letto questo libro, ragazzino, dieci anni fa, mentre le guerre partigiane no, allora non c'era e può solo riferire di letture remote.
E allora rimane solo una cosa poi, il Mito, quello di un Ulisse stanco che appena tornato alla petrosa Itaca la trova identica e, forse peggiorata, come la rimetta a posto, se facendo strage di proci oppure mettendo a bottega un orfanello poco importa.
Ciò che conta è che "seguir virtute e conoscenza" porta al di là delle Colonne d'Ercole, o in viale Corsica a Genova e da lì forse imbarcarsi, oppure semplicemente, al di là del mare, dove ci si guarda alla stessa luna ma ci si incendia ad altri falò.

La luna e i falò
Di Cesare Pavese, Gian Luigi Beccaria (Prefazione)
Einaudi - Super ET, 2005

domenica 3 gennaio 2010

E la società, dopotutto, era semplicemente una cattiva abitudine

Immaginate di rimanere soli sulla terra, risalendo dal cuore ad imbuto del pianeta dove avreste voluto incubarvi, essere l'unico umano emerso in un mondo di evaporati.
Allora voi, cosa fareste?
Semplice, pensereste che il mondo è in vacanza, altrove che siete vittima di uno scherzo di qualche entità mai nominata e, in fondo, mai neanche contemplata.
Così voi, il meno allineato di tutti, il meno socievole, misantropo e solipsista diverreste l'umanità e, parlando di voi a voi, parlereste del genere umano al genere umano: "quel <> non suppone niente e nessuno. Rivolto a me è un pleonasmofunzionale. Mi tiene compagnia".
Il romanzo della solitudine totale e annichilente, dapprima agognata poi vissuta quasi come una punizione, il monadismo costretto.
E il genio di Morselli sta qui, nell'impossibilità. L'impossibilità della lamentazione à la monologo interiore novecentesco.
Il protagonista è solo, talmente tanto che è incapace e disinteressato ad un analisi personale di tipo approfondito, talmento tanto da non avere neanche un nome, tanto nessuno lo chiamerebbe.
C'è anche una natura ritrovata ma non si perde in un arcadismo di maniera, ciò che è tecnologia è necessario per mantenere un contatto, perlomeno simbolico, con ciò che fu umano.
Si vaga dunque tra la filosofia e la psicologia, tra la sociologia e la letteratura in uno scorrere di citazioni ricercate, gemme di erudizioni alessandrine a partire dal titolo.
La lingua poi, così ricca e complessa, mai banale, mai scontata nelle sue immagine si arpiona ai visceri.
Una lingua capace di dare piacere e dolore, la lingua della vertigine dell'abisso, dove l'Umano è, irrimediabilmente, solo.

Dissipatio H.G.
Di Guido Morselli
Adelphi, 1985