venerdì 28 agosto 2009

Wild is the wind

Dom 16 Ago – Morgan e le Sagome, Arbatax (Piazzale Rocce Rosse)

Per chi non conoscesse le Rocce Rosse di Arbatax alcune coordinate.
Immaginate di entrare in un anfiteatro naturale dove il rosso dell’altezza delle rocce a picco sul tirreno toglie il fiato, immaginate un gran canyon, col mare di Sardegna sotto, immaginate il tramonto e le prove delle Sagome in pieno cazzeggio, questa è la cosa più vicina alla felicità che abbia sperimentato quest’estate, questo è uno dei luoghi più belli dove si possa suonare.
Che dire del concerto di Morgan, ultimo del tour con le Sagome, ultimo di questa tranche?
Potente, psichedelico, meraviglioso anche a detta di chi quest’estate ne ha visti già tanti, se Morgan doveva concludere ha concluso in gloria.
Mai avevo peregrinato per tutta la Sardegna all’inseguimento di un cantante, l’ho fatto solo per Marco Castoldi, vorrà dire ben qualcosa, e molte aspettative.
Nota di colore, appare il sosia perfetto di Morgan, esaltato, vestito come lui ma modello mercatino, offre uno spettacolo pietoso e lì tocco con mano cos’è questo baraccone di X factor, perché la gente pur di avere la foto col fantoccio ci si butta, rabbrividisco come sempre mi capita con le pantomime mal riuscite.
È alle 21 e 30 che inizio a capire come andrà a finire, una prima fila di aficionados, dietro qualche ragazzina accompagnata dai genitori, qualche altro giovane molte persone “di una certa età” che non parevano avere intenzione di adescare adolescenti con “sigarette turche”.
La situazione appare desolante e il mio umore oscilla tra due diversi sentimenti:
variabile uno, ovverossia apologia dell’egoismo, che mi vede felicitarmi con le varie mestessa con cui coabito per la dimensione umana e apparentemente interessante che avrebbe potuto prendere il concerto;
variabile due, ovverossia sindrome delle braccia in picchiata, nel notare quanto comunque, musicalmente, Morgan attiri meno degli Ska-P o dei SubsOnica, che suonavano alle Rocce Rosse nei giorni precedenti.
I giornali locali lo definiranno un vero flop di pubblico ma se la discriminante è la qualità e se vi piace la psichedelica avete fatto molto male a non esserci.
Nel preconconcerto sono le note di David Bowie a tenerci compagnia, quelle che oscillano dal periodo delle odissee stellari fino all’Aladdin Sane ad anticipare il viaggio galattico, il mondo di alieni fluorescenti, la vita su Marte che le Rocce Rosse suggeriscono e, last but non least, il fatto che chi di dovere fosse stato abbondantemente messo al corrente nei giorni precedenti che nella stessa location vi suonò proprio lui parecchi anni fa (o forse, ipotesi più vitale, è la musica che passa ad ogni preconcerto ma, perché rovinarmi da sola l’idea Romantica della voluta affinità? E, a proposito di Romantico, sarà con le Ombre dell’Eroe Lele Battista che si continuerà fino al momento del concerto vero e proprio.)
Le poltroncine nelle quali ci hanno costretti sono ad una certa distanza dal palco e questo non aiuta né noi nè i musicisti ad avere una sintonia immediata, la sproporzione è evidente nel momento in cui ci sono poche persone per distanze da grandi masse.
Ad aprire al buio è sempre la voce di Pasolini con quel suo fare metatv e da dentro il medium analizzare in profondità il ruolo dei media, come quando fai di quei sospironi perché il genio ci arriva sempre un millennio prima e facendogli il coro si finisce triturati dal meccanismo, ogni volta che sento quell’incipit mi amareggio moltissimo per cui... il dunque.
Morgan entra da solo, giacca nera e pizzi, “nastri e... passamanerie” a sfidare qualsiasi barometro presente e assente, si siede al piano e attacca Contro me stesso; da solo strazia il piano e gli altri ammennicoli sonori, da solo sfida la laringe non ancora calda nella desolazione del suo pezzo più lacerante che cresce poi improvvisamente, canzone senza ritornello e senza apparato di strofe, fino all’ingresso delle Sagome che appaiono, si preparano, ombre silenziose, che entrano ex abrupto dentro al pezzo dandogli profondità e complessità sempre maggiore per finire in una lunghissima coda nella quale Morgan e la band si dilettano a proseguire, quasi sdraiati sugli strumenti, dilatano le note per sfilacciarle e ricombinarle come un dna sciolto, demiurghi di alieni suoni quasi atonali.
E alieni lo sono un po’, soprattutto il fluorescente completo rosa elettrico di Megahertz.
Morgan accenna appena un piccolo saluto e parte con la sua Amore assurdo, quasi parlata, una storia raccontata con quei suoni da tempo che fu o forse troppo lontana dalla voce di un inizio concerto; qui le prime magagne: Morgan fa dei cenni a Megahertz, non va, non sente, sale il tecnico, il problema?
Ovviamente il mac.
Continuano a suonare in un crescendo di assurdo amore e quelle “passamanerie” shackerate da delirio composto perché ognuno è fermo immobile se non per l’atto di suonare, neanche Morgan si alza dal piano e lì rimarrà per Le Ragioni delle piogge così tintinnata dove i cori di Carusino e Megahertz cominciano ad essere maggiori e dove finalmente Morgan si alza improvvisandosi xilofonista e inizia la variabile polistrumentale dove ognuno mette mano a ciò che può. Anche questo brano soddisfa le alte aspettative, si tratta di una canzone importante del repertorio morganatico e molto attesa, un post waterloo come lo aspettavamo noi.
Infine Morgan scappa dietro le quinte a levarsi giacca e camicia lasciandoci in ottima compagnia di Sagome piuttosto psichedeliche e un disperato e giovanissimo tecnico che cerca in tutto questo di mettere continuamente mano al mac, bianco, senza deturpazioni di presentatrici bionde, mai più felice di osservare una mela morsa.
Esce di nuovo il Castoldi, va diritto al piano e attacca una struggentissima e delicata You’ll come back home someday salvo poi passare a delle variazioni western, così come la pensò Endrigo ma con interventi elettronici, dove entrambe le chitarre assumono il controllo solo guidate dall’attrezzatura morganatica. Il risultato è molto coinvolgente e stento a star seduta e, invero, deve essere la stessa cosa che provano i miei vicini se anche le loro spalle si muovono a tempo, le poltroncine ci vanno veramente troppo strette oramai.
Ma è con Heaven in my cocktail che il concerto entra proprio nel vivo, la più psichedelica delle canzoni del Castoldi vorrebbe trasformare il piazzale delle Rocce Rosse in una pista da ballo e Morgan sta in piedi e va, poi sta al piano, si ribalta sulle tastiere alternandosi con Megahertz, siamo al puro delirio, ma nessuno si alza, personalmente ho paura di essere linciata da chi mi sta dietro ma faccio molta molta fatica a stare al mio posto.
“Le lacrime nei tuoi occhi” si fondono nel finale fino ad andare infrangersi in una specie di Rapsodia in blu che traghetta nella risacca delle Rocce Rosse il vascello elettronico verso un enorme incipit di DaAadA con tutti ai cori e suoni che non escono, il risultato è comunque brillantissimo e certo non monotono, Morgan al piano si sbatte, si gira, tocca tasti, ci tenta col mac, ma si riprende sempre al momento giusto come quelle bamboline a molla che nonostante uno provi a sballottarle rimangono sempre nella scatola.
Dalla coda della canzone dell’eterno ritorno scivola al primo cliente dell’Ottico (Un) di De Andrè in un crescendo di psicodelizie sonore che fanno lo stesso effetto di grattamento del miele in gola ma al contrario, i suoni sono talmente stridenti, contrastanti e pomposi da essere percepiti dalle orecchie come gradevoli eufonie.
E lo sono infatti, sebbene Morgan, qui e nei "cocktail", cerchi il colpo di genio, l’effetto speciale raffinato, sovrapponendo dissonanze con piano e sinth, o anche grossolano, salendo su uno sgabello; poi, scambiando con Sergio sorrisi di complicità, improvvisano un duetto di percussioni che inevitabilmente rimanda a tempi di bluvertigini, poco prima di finire i clienti. Allora riprendere con la presentazione di mercanzie dell’ottico, affrontando al contrario il mondo delle lenti che non portano “in wonderland” come nell’originale, ma stravolgono la visione spoonriveriana dell’epitaffio iniziale per usarlo come chiusa.
Forse un lavoro eccessivo, o meglio eccedente, quello che fa il Castoldi su questo pezzo, potremmo dire superfluo?
Potremmo anche, ma non lo diremo, perché mi è parso comunque un esperimento interessante.
A questo punto, dal centro della platea mentre Morgan chiacchiera e intrattiene cercando di assemblare pensieri per lasciare tempo al tecnico di occuparsi del mac un ragazzo, non gli grida “Morrrgann, perché non possiamo venire lì?” lui risponde “Le poltroncine sono una prova per vedere quanto il pubblico riesce ad essere eversivo”.
Partendo dal presupposto che, concettualmente, la vera eversione sarebbe stata quella di non alzarsi ad esplicito invito, noi siamo volati sotto le transenne perché, in fondo, non aspettavamo altro e Morgan imbraccia il basso, sarà Mega da ora ad occuparsi di tastiere e teremin.
Parte immediamente con Se, il suo brano traduzione dei Pink Floyd,uno degli esperimenti traslatori che tanta fortuna hanno sia nella discografia che anche e soprattutto nei live morganatici; ora appare più vivo, adesso è diverso è arrivato più avanti che può, sta in piedi su una cassa ha vestito i panni del rocker e si agita a contatto col pubblico.
Dice che così va meglio e attaccano Crash con il suono del teremin marcatissimo e onnipresente, il pezzo scivola morbido senza troppi stridori, a dispetto del titolo, in uno sciabordare ondulatorio del pubblico che ormai lambisce il palco; quindi torna al piano e smanetta con gli strumenti.
Qualcuno gli urla qualcosa a proposito di un compleanno, riceve gli auguri da Morgan e Sagome prima in minore e poi in maggiore così per ripristinare una qualche pseudo forma di allegria.
Gli consigliano di buttare il Mac di cui si lamenta spesso e successivamente l’I-phone in cui cerca i testi delle canzoni, lui risponde che forse stasera poi non ha troppa fortuna con le mele, viene fuori che la festeggiata ha nome Barbara, per cui inizia a suonare l’omonima di De Andrè completamente estemporanea con le ottime sagome che, pur permettendogli l’improvvisazione, lo tengono imbrigliato in legami di scaletta impedendo derive da pianobar e pezzi su richiesta. C’è comunque molta sintonia tra i membri del gruppo e questo traspare anche dal loro apparente divertimento on stage e dalla capacità di mutare tutto con uno sguardo avventurandosi in passaggi futur-jazzistici.
Non Arrossire, la cover di Gaber, riporta tutto ad un’atmosfera più retrò la suona al piano, Morgan, chitarre presenti, basso risoluto. Un’interpretazione morganatica un pochino “eccessiva” rispetto all’algido controllo dell’originale Gaberiano ma ci ha abituati così Morgan, ad interpretare con partecipazione fino a sfiorare il “patetico” detto alla greca però, il che è una cosa bella.
Da cover a cover, sempre pseudo improvvisando si va a Morir per delle idee come ormai spesso accade con intermezzo in Addams Family, ma nessuno ha mai visto la famiglia Addams? No perchè ogni volta che fa quel pezzo i claps del pubblico,che dovrebbero sostituire lo schioccare delle dita, vengono messi un po’a caso dagli astanti.
A dispetto di chi dice che sia da blasfemi, dopo lo straniamento iniziale, tutto ciò non mi dispiace, perlomeno live, è una tipica morganata e se ne prende atto.
Sta ancora al piano dove intona il Mio Mondo di Bindi salvo per poi alzarsi e cantarla con tanto di microfono e asta e pugni chiusi come un interprete d’altri tempi passando poi alla seconda strofa in inglese.
Sul pezzo non si transige, meraviglioso e va meglio dal vivo che su cd anche se continua con quel sottofondo di archi farlocchi anche on stage, non mi convincerà mai ma scalda il pubblico ed è il momento della sua hit: Altrove con un arrangiamento meno marcato all’inizio, un incipit che arriva da lontano per traghettare “altrove” tutta la canzone. Mega fa cori robotici mentre ci si svincola da convinzioni, pose e posizioni per veleggiare, forse per comunanza di concetto più che per melodia, verso Volare di Modugno per poi riprendere con la chiusa di Altrove, passano tanti minuti nei quali il gruppo si diverte e pare improvvisare, Morgan ci coinvolge in cori dissonanti, finché, ispirato, di spalle, col microfono in mano non comincia con un “love me love me love me” quasi sussurrato, quasi non ci credo, faccio tutto il labiale, molti non sanno neanche di che brano si tratti.
Penso che non la farà tutta, penso che si risparmierà e invece canta fino alla fine Wild is the wind , senza cedere sugli acuti, trascinando il suo gruppo e lui solo come cantante fino a metà quando strimpella qualcosa, la esegue per intero con mio sommo compiacimento e poche parole da aggiungere.
Ma il momento clou arriva con un’esecuzione parossistica de La Cosa, esageratamente spinta fino alla disperazione che si ha nel volere tutti la stessa cosa come possibilità, già è canzone psichedelica e quasi dadaista di suo, con le incursioni delle Sagome lo diventa ancora di più, Morgan fa sì che diventi un quasi duetto col pubblico uno scambio di "cosa? che cosa? La stessa. Cosa" in molteplici varianti con un eloquente (e autocompiaciuto?) “vorreste ma non potete salvarmi” un divertente “neanche tu che ti vesti come me ti potrei salvare” riferito al sosia da outlet suddetto e poi un apocalittico “nessuno di noi si potrà salvare”.
È vero Morgan, è vero.
A chiudere It's no Game iniziata in giapponese urlata come merita per poi finire tra suoni devastanti con Morgan al piano che la traduce parola per parola, che la rende intelligibile, strale per strale, che sviscerandola la dona, per poi riprenderla quasi in un nuovo crescendo ricordandomi perché, alla fine, questo artista ancora mi lega in qualche modo a sé.
E poi si avvicina, ci saluta, ci ringrazia.
Ed abbiamo noi un bell’insistere a chiedere al bis, salgono a smontare, mettono la musica, è Changes e noi sotto il palco la cantiamo tutti a squarciagola ma non serve e non servirà a farli tornare fuori.
Peccato.
Per il resto Morgan con le sagome c’è e funziona ancora molto bene, lo aspettiamo, speriamo non tra altri tre anni nell’Isla, magari con meno aspettative da parte nostra e una maggior voglia da parte sua.

giovedì 20 agosto 2009

Non avevo mai sospettato quanto fosse importante l'intonazione di un abito con il colore del cielo

Disperato e delicato come solo i giapponesi sanno essere.
L'arte, la distruzione e la decadenza di un mondo a metà, la tradizione e i poeti maledetti letti a Tokio nel dopoguerra.
Ma è l'anelare alla morte procurata come l''arrotolarsi delle spire di un serpente per l'incapacità di vivere il cambiamento, per la lotta tra l'onore e la vita la cui risoluzione può essere solo la decadenza: "fare il decadente era l'unico modo di sopravviversi".
Un"dettaglio"abbastanza importante, non esiste una traduzione diretta dal giapponese di questo libro, però ci ha pensato uno a caso a tradurlo dall'inglese per Feltrinelli: Luciano Bianciardi, una bella sorpresa vederlo destreggiarsi tra ribellioni elementarmente sovversive :
- Io ce l'ho un posto dove andare
- E dove andrai? Da un amante?
- No, farò la rivoluzionaria.
E madri pallide che preferiscono i fiori estivi.
Niente è assimilato e ponderato, i personaggi sono sballottati come sballottato è il Giappone perdente nel post conflitto.
Un libro veloce, delicato ed intenso, dove il mal di vivere è mitigato da una serenità ineluttabile di fondo e dai profumi dei fiori di stagione dei giardini nipponici.

Il sole si spegne
Di Osamu Dazai
Feltrinelli, 2009

martedì 18 agosto 2009

Forse è volata, forse più non vola.

Gio 13 Ago – Morgan: "Non all'amore non al denaro né al cielo" L'Agnata (Tempio Pausania)
Cosa preferite che vi dica?
Del tuffo al cuore che si aveva quando percorrendo il vialone che porta all'Agnata d'intorno c'erano dipinti con il faccione di De Andrè ad interpretare tutti i personaggi di Non al Denaro?
Del vedere la tenuta dei De Andrè, di Dori Ghezzi che si aggira tra i presenti come una perfetta padrona di casa?
Del sentire la mancanza di Fabrizio, così intensa e forte da dare sacralità ad un luogo che è sacro ma alla latina, quando sacro ancora voleva dire separato?
Del piano a coda, montato sotto i nostri occhi sul prato verde, del pubblico così eterogeneo dai bambini agli anziani, abbondantemente ripulito dalla fanciullesca acefalia imperante però allo stesso tempo paralizzato, anche un po' frigido a volte raramente fuori luogo?
Di noi sotto il sole dalle due per guadagnarci la prima fila, noi con una crisi d'astinenza di anni e anni, carichi di aspettative (mai caricarsene così tanto, perdio, poi fa male quando vengono sistematicamente deluse)?
Ma questo non importa, tutto questo è di un'inutilità sconcertante quando poi, alla fine del vialone è un ritratto di Morgan imprigionato in un prisma a dominare, quando poi l'attesa è per lui, quando poi lui che canta De Andrè ha delle potenzialità così gigantesca che non puoi credere di essere lì in quel momento, non puoi credere che assisterai ad un evento, proprio tu, che non lo becchi mai, che abiti lì, nell'isola.
Alle sei meno un quarto già ci avvisano che stanno per iniziare, mi stupisco della puntualità ma me la spiego con gli impegni successivi di Fresu.
Infatti è lui, il direttore artistico del Time in Jazz, insieme a Dori Ghezzi a presentare Morgan, con sperticate lodi da parte di quest'ultima: "molti hanno iniziato a conescerlo adesso ma hanno visto neanche un quarto delle sue potenzialità".
Si abbracciano Dori e Morgan, lo faranno spesso durante la serata, un abbraccio stretto, quasi un aggrapparsi.
E poco prima Morgan era uscito dalla porta a vetri, quella che sta dietro la tenuta, il lato B della facciata ricoperta d'edera, esce e saluta e noi siamo a un metro di distanza, e la sento come una cosa surreale ma piacevole,e penso solo "eccolo, ci siamo".
E parte subito con "qualcuno tornerà" abbastanza intensa, meglio, molto meglio al piano solo che su cd, poi fa "il suonatore Jones" e lì vengono fuori le magagne, il solito cazzo di Mac!
Casse che gracchiano, suoni sintetici che non escono e lui si arrabbia per il volume: "vi avrebbe spaccato le orecchie" dirà il suo fonico poi.
Problemi tecnici e una leggera approssimazione, nell'attesa manda l'intro con la voce di Pasolini, quello dove parla dei media e della censura, mi strappa un sorriso.
Ma questa è un'altra storia di parentesi e di errori, di sole che tramonta a volersi giustificare coi riflessi sui tasti per testi nel dimenticatoio.
Ma non fa nulla e si spaventa e suona il tema di "incontri ravvicinati del terzo tipo" forse lo inquieta averci così, a un metro da sé.
Finalmente si ricorda che è in casa "De Andrè" e suona "Morire per delle idee" inframmezzata dal tema di The Addams Family, non una novità se il pubblico non fosse totalmente incapace di seguire il tempo con le mani, è una cosa che ho notato, l'ansia di battere sempre una volta in più.
Ma è stata "altrove" ad accendere il pubblico, la hit, il richiamo, ovviamente con un intro che per molti appariva irriconoscibile, esaltati solo da quell'inciso: Però conclusa e intercalata da "volare" come le leggende dcono gli piaccia fare ai Piano Solo.
Poi è il suo momento, "Amore Assurdo" straccia l'anima, strozzata dal nuovo timbro morganatico e poi "Contro me stesso" ammutolisce anche chi, nonostante tutto, continuava ad urlare cantando, fuoriluogo come poche cose.
Suda morgan e si agita e combatte con mac e sinth, e poi invita Fresu ad improvvisare con lui, dal canzoniere di De André e a quel punto che l'atmosfera cambia.
Un lunghissimo intro jazz di piano flicorno introduce "Preghiera in gennaio" e, finalmente, liberato da orpelli e computer, piano, voce e flicorno, a casa di De Andrè, bello da morirci un po' a ghiacciare gli spettatori a 30 gradi all'ombra nell'acuire una decennale mancanza.
Poi un "ottico"a partire dal primo cliete psichedelica e appoggiata al flicorno che serviva un po' da controcoro per finire con una "Canzone dell'amore perduto" resa ancor più malinconica dai fiati, che nella campagna di Gallura gli amori perduti fanno male sempre un po' di più.
Ed è il devastante peso dell'addio.
Dice che vorrebbe risparmiarsi il siparietto del bis per cui si alza e torna al piano per concludere con Ni dieu ni maitre (chissà se è scritto bene) un Leo Ferrè tradotto in italiano omaggio, come il fiocchetto per una volta pertinente, al cantore anarchico italiano da un altro anarchico cantore, e con questo ci saluta dopo appena un'ora e dieci.
Non nego una certa irritazione da parte mia nel suo essere stato così esiguo, nell'essersi risparmiato un po' nei tempi e per aver quasi completamente saltato "Non al denaro" a cui il concerto doveva essere dedicato e un po' d'insoddisfazione a caldo che, a freddo, soprattutto nel rivedere la bella prova con Fresu e il pezzo di Ferrè mi pare sia stato un evento unico, il giusto battesimo per un ritorno degno