mercoledì 24 marzo 2010

Un detonatore

Hai tra le mani un detonatore, scegli tu se farlo esplodere, scegli tu se immergerti dentro a queste storie, se farlo tutto d'un fiato o di lasciarti il tempo di diluirtele addosso.
Ci sono bambine rosa, ci sono moticlette e roulottes, scrittrici per gioco e aborti per noia, ci sono liceali di campagna e disturbanti sono gambe amputate, gelo delle piogge, l'hashish di nascosto.
Piccole storie, piccoli detonatori, da leggersi all'alba se vuoi, mentre aspetti insonne un giorno che tanto vale impiegarle bene quelle ore anziché rivoltarti nel letto e usare quelli degli altri di pensieri che i tuoi sono macigni.
Poi tornare indietro negli anni, a vedere com'eri ad avere paura di come sarai.
Bella la lingua e belli i suoi usi, un primo impatto di una semplicità disarmante che tradisce una consuetudine con la parola scritta preziosa.
Corpi abitati da fantasmi, catapecchie, forse è tutto qui, o nel segreto di una forma che non è la tua, troppo tonda da scegliere se viverla o no tra una versione di Seneca e l'altra, viaggiando per ore prima di raggiungere il liceo.
Ed è l'alba, sì, tra le capanne dei ruscelli quando ti rincorre il fantasma di un cioccolatino di troppo.
Libro notevole.
E questo è quanto fino alla prossima alba.

Una cosa piccola che sta per esplodere
Di Paolo Cognetti
Minimum Fax, 2007

lunedì 22 marzo 2010

L'amore suca come vetro fa diventare

Sono cinquecentodieci pagine che volano via, duecentocinquantacinque volte infilare il dito nell'angolo destro del retro che si sta leggendo per andare a farlo scorrere fino a metà pagina (spesso le dita sono più lente degli occhi) fino ad arrivare a girarla e ad attaccare il retro successivo.
Esercizio per niente difficile in questo caso, esercizio al quale ci si dedica con piacere e avidità per capire come finisce questo romanzo d'amore, come si evolve il suo travestimento da saga familiare e le vicende della protagonista Modesta (mai l'adagio nomen homen fu più azzeccato per indicatare un'evidente dicotomia)una che le vicende dell'amore le conosceva.
Una storia che si dipana dal 1900 al 1960, una protagonista che nasce con quel secolo, il 900, che meglio di qualsiasi altro ha portato allo scoperto il disagio di essere umani declinato, in questo caso, nella sua metà squisitamente femminile.
Più che altro Modesta ama e lo fa liberamente, senza preconcetti o paure, ama uomini e donne, sperimenta la purezza di un sentimento che la fa talmente grande da dare l'idea di un'epopea più che di una vita.
Sono troppe quelle che vive per una persona sola, seppur straordinaria, e altissima è la caratterizzazione dei personaggi che incontra ma è brava, la Sapienza, a non essere mai macchiettistica anche dove ce ne sarebbero i presupposti e alta sarebbe la tentazione dell'irrisione.
Lei, Goliarda, non si perde mai nel populismo nè, pur facendo ben presente la sua vocazione di intellettuale di sinistra, si risparmia strali per i suoi stessi compagni in una visione lucida e intelligente soprattutto della questione femminile.
E' una femminista anche Modesta e tout court, solo che non si perde in slogan o battaglie, è femminista nella vita quotidiana portando fuori la vera natura dell'essere donna e non imitando gli uomini. Vuole esserlo calata nel suo tempo ma l'operazione non sempre riesce, la si può capire e condividere, questa sua scalata all'emancipazione e all'indipendenza anche economica, con la mente di una donna del 2010 con genitori che hanno fatto il '68, se la si cala ai primi del '900 risulta quantomeno difficile.
Ed è qui che il libro non funziona troppo, una precisione storica quasi pedantesca per gli avvenimenti dell'Italia e del mondo di quegli anni, si accompagna ad una sublimazione eccessiva di una donna che, da sola, ha scavalcato tutte le tappe del suo essere donna ed emancipata in una Sicilia pre e post bellica ma, ciò non ne inficia la piacevolezza e linteresse del libro.
Notazione a parte meritano stile e lingua, eterogenei entrambi, con registri stilistici che si sovrappongono dal dialetto all'italiano regionale fino ad uno stile alto e aulico a seconda dei personaggi e dei loro interlocutori, lo stesso piano cronologico della vicenda seppur seguito, si perde a volte nelle dissertazioni con personaggi di un passato ancora anteriore con i quali Modesta intesse un dialogo post mortem.
Una grande opera comunque, uscita in Italia postuma, che da la misura di quanto il nostro paese non sia ancora totalmente pronto per una libertà manifesta e gridata

Goliarda Sapienza
L'arte della gioia
Einaudi SuperET, 2009

mercoledì 17 marzo 2010

Anche se non ho le ali

16 Marzo 2010 Teatro Smeraldo, Milano
Gli Afterhours a teatro, una bestemmia se penso ai miei anni del liceo quando il mio compagno mi scrisse tutta 1.9.9.6. sulla smemo (a proposito di bestemmie, forse era per il gusto di vederla scritta?) ma sono storie altre e poi io sono cresciuta e loro più di me, adesso il teatro sì, ci sta.
Le luci si abbassano puntualissime e il sipario si alza allo Smeraldo, Manuel Agnelli completo nero e capello lungo, caldo di piastra, si presenta da solo sul palco senza strumenti e con un foglio, tratto dal suo "meraviglioso tubetto" che è poi diventato il testo di anche se non ho le ali non vuol dire che non t'ami.
Accompagnato da (udite, udite!) nientepopòdimenoche Xabier Iriondo in tutto il suo splendore e varia strumentazione (la mia vicina chiederà alla sua amica "ah sì? e chi è questo iriondo?" mah!)
Partono bene, sì, e continuano meglio con l'ingresso del resto della band accompagnata un quartetto d'archi, ritmo incalzante e frenetico per una tarantella all'inazione dall'inizio claustrofobico e un cuore di macchina, D'Erasmo suona il tamburello, dello stridore del violino si occupa la mini-orchestra degli Gnu Quartet alle sue spalle.
Direttamente dal mio primo anno fuori casa di mamma e papà viene riesumata tutto fa un po' male mi accorgerò che sarà la serata dei revival e mi preoccupo per il collo di Dell'Era che pare esplodere in quei controcori, come al solito in tenuta da Benicio del Toro di Via Ripamonti tratto distintivo assieme al balletto sixty col basso (che peròperò quando lo suona si fa perdonare tutto).
Così cala un telo bianco funzionale alla proiezione di volte di fumo che tanto mi ricordano l'onirismo lynchiano di Eraserhead, gli Afterhours stasera tenteranno di darsi un taglio "intellettuale" e lo faranno ma con risultati alterni.
Un lunghissimo intermezzo musicale sulle note di musicista contabile, questa sì che è una sorpresa, sto quasi a bocca aperta mentre durante il cantato in un gioco d'ombre i musicisti vengono proiettati ora l'uno ora l'altro a ingigantirsi contro quello schermo, le lanterne magiche di un'infanzia di altre ere, potremmo supporre, e come infante sta il pubblico piuttosto ammutolito e composto.
Avevo dei ricordi ben più movimentati dei concerti degli afterhours, i primi si perdono in una fine d'adolescenza ma anche quelli molto più recenti non paiono contraddire la mia antica impressione, però sì, sono stupita, mi piace l'atmosfera.
Mi risveglia posso avere il tuo deserto con tutta la forza di un brano che pare appena uscito talmente suona nuovo live con un nuovo vestito e per la rarità con cui è proposto, Bello.
E poi lo schianto con simbiosi e sì, è ritornato Iriondo a smanettare con i sinth ed elettronica variopinta, ed è tutto così sommesso prima e poi diventa quella cosa che conosciamo, quelle parole disperse nel vociare, il pubblico ammutolisce, qualcuno canta ma sottovoce, per non disturbare qualcosa che da tempo mancava e D'Erasmo guida quel quartetto d'archi e flauto, così, perché non si smarriscano nella simbiosi anche loro.
Succede dopo una cosa stranastrana e anche un po' bruttarella, arriva Claudia Pandolfi (sìsì l'attrice) a buttare via i Versi del Testamento la poesia di Trasumanar e Organizzar di Pasolini.
Ed è enfatica, troppo poco partecipe forse, quello che passa è una leggerezza della solitudine che non c'è nell'originale, la band ha la pietà di accompagnarla, chissà che ci distraiamo un po'.
Poco tempo e l'applauso va a Pasolini più che a lei, anche se davvero, non so se in questo contesto fosse appropriato, non letto così ma il "bello" deve ancora venire.
Esce leggendo l'articolo sul Vilipendio (mi pare che il titolo sia proprio questo) di Manganelli, parte il disastro, in tutti i sensi, tempi sbagliati, ironia dove non c'è e piattume dove c'è ironia, il pubblico se ne accorge, qualcuno urla qualcosa, lei si impappina, prosegue a stento, non vediamo che finisca quest'agonia, l'applauso è liberatorio.
Ci aveva anche provato Iriondo con le sue macchinine elettroniche a risollevarne le sorti, un momento talmente basso che manco all'oratorio quando si volevano recitare le tragedie greche.
E allora spalanchiamole le tende proiettate di senza finestra, facciamo finta non sia stato detto nulla e continiuamo con la serata che è ancora lunga e con una dolcissima Icebox in diretta dall'oltreafter, un tempo così lontano che non ho mai conosciuto vivo e rispunta a distanza di vent'anni.
Qui cambiano le carte in tavola, la versione è acustica con Dell'Era alla chitarra, acustica appunto, Agnelli solo voce, Ciccarelli è l'unico stabile alla chitarra elettrica, D'Erasmo alla chitarra e Prette sta seduto a terra e pizzica una cosa che mi pare il basso di Dell'Era ma potrebbe essere una chitarra, sono troppo distante.
E tutto diventa di una dolcezza inaudita per i ruvidi after e anche noi turn to ice mentre si compie.
E rientra Iriondo per aiutarli a tornare ancora più indietro talmente lontano da essere inafferrabili fino a spiegare how we divide our souls anche se sembriamo abbastanza compatti; con Iriondo alla chitarra elettrica hanno liberato Prette che fremeva, alleluja.
E poi è il momento di 1.9.9.6. eccola lì, direttamente dalla mia smemoranda (del 1999/2000 però) un infrangersi di architetti sopra la città con la stessa vemenza di allora, mi appassiono e canto un po', lo fanno tutti adesso, meno male.
Manuel, con tutti i musicisti sul palco e lui al piano dirige un tappeto sonoro sul quale legge un brano di Flaiano: "Le Iene" 'azz, bravo l'Agnelli, gli avrà insegnato un qualche maestro di recitazione, non deve essere lo stesso della Pandolfi però, meno male.
Chiamata e annunciata arriva la ballata per la mia piccola iena a suonare quasi come una hit in quel contesto confidenziale, non so, è bellissima come sempre ma inaspettata nonostante, probabilmente, prima di entrare avrei giurato che l'avrebbero fatta.
Così tutto diventa blu, tutto diventa mare e parte oceano di gomma soffusa, mi pare, guardo Prette che adesso indossa un bustino nero, me lo ricordavo più virile, infatti è la solita Pandolfi che con una notevole apertura alare batte sulla batteria sotto il diretto controllo alternato di D'Erasmo e Dell'Era.
Come batterista è meglio e ho detto tutto.
La canzone è comunque la meraviglia di sempre.
Un nuovo cambio di prospettiva ed è solo febbre forte e intensa, D'Erasmo e gli Gnu danno il meglio di loro stessi e non si rimpiange il violino psichedelico di Ciffo.
E' rimasto solo con gli Gnu, adesso, Manuel e si siede al piano per una pelle struggente (ad emozione antica, vetusto aggettivo), bella anche così, non oserei un più bella ma per alcuni istanti l'ho pensato.
Si viaggia ancora e si approda a Varanasi baby con una scenografia molto indiana e una coda interminabile, potente, è la chiave della serata l'alternanza del piano e del forte (ogni riferimento a strumenti musicali reali o presunti è puramente casuale).
Si chiude questa prima tranche con ritorno a casa , e dunque, altro monologo Agnelliano,questo pezzo lo salto sempre quando sono fuori casa, mi fa venire i lucciconi ma stasera non trovavo il tasto "avanti" e così i lucciconi me li sono dovuta tenere.
La pausa dura poco, una decina di minuti, subito riappare Manuel in una scenografia molto mutata ai piedi di una specie di scivolo con la chitarra e alle sue spalle gli Gnu a cantare il paese è reale, a metà si ferma, da una tenda bucherellata appare Antonio Rezza, ospite annunciato e graditissimo, finisce lo scatch e rinizia la canzone.
Gli afterhours non suoneranno più da questo momento, se si eccettua qualche accompagnamento fatto al comico laziale, ma si esibiranno nella veste inedita di attori, una bella sorpresa.
Rezza è divertente e diverte, la sua comicità sopra le righe, intelligente, strafottente, lucida conquista lo Smeraldo.
Si esibisce dapprima in una "rivincita" delle sorellastre di Cenerentola, poi in un "training" per Giovanna D'Arco, poi è la volta di un malefico nanetto vestito di azzurro che sa fare tutto e ne combina di più (o.r.a.f.c.p.e.p.c.) alla fine da un ospedale si passa ad una corsa tra suore e laici.
Poi conclude con una "pietà" livornese con tutti gli after in scena.
Sì, lo so, detto così non fa ridere.
Escono tutti a salutare e gli applausi non languono e continuano anche dopo la chiusura del sipario ne vogliamo ancora, com'è ovvio che sia ma manuel fa cenno all'orologio, è tardi, si deve chiudere.
Rimane la sensazione di aver visto degli afterhours veramente inediti, rimane la sensazione di un bello spettacolo seppure, in alcuni momenti, un tanto al chilo, rimane la sensazione che gli after funzionino, anche a teatro.

martedì 16 marzo 2010

A volte, un pianoforte in mezzo a una piazza ha più senso che altro. (Milano)

Bianco abbagliante quando c'è il sole ché si può distinguere anche il marmo rosa e grigio di quella cattedrale gotica che chiamano Duomo per comodità.
La giapponese. Immobile con espressione cattiva come se con la foto il consorte (deve esserlo per forza: stesso viaggio, stesso destino)potesse portare via tutto il sole, che si sa, a Milano è raro.
Non si passa in piazza Duomo in mezzo alla folla, fa troppo turista anche se un piano suona Einaudi, non da solo, s'intende.
Il pianista ha un cappello e credo sia questa la novità.
La folla è brughiera ma non è tempo di romanticismo decadente a Milano, oggi l'andare è quello del sole timido, dello struscio, delle macchine fotografiche e dei marsupi, il tempo è quello dei turisti in fila per due e delle foto alla madonnina.
Una tristezza che quasi si piange anche se c'è il sole, oggi, a Milano, e col sole non si deve piangere perché tutto è chiaro, perché il vento ha fatto diventare il cielo azzurro e si distinguono così, le lacrime anziche mischiarsi nel cliché della pioggia.
Non ci sono neanche alberi ai quali appendere l'anima stufa come la pancia di Sant'Andrea, non si può liberarsene nemmeno un po' e di alberi, nella brughiera, non se ne vedono poi così spesso.
Il pianista ha cambiato pezzo e in due l'hanno anche applaudito.
Poi c'è radioitaliasolomusicaitaliana col suo jingle fastidioso, viene dall'africano a fianco a me o dalla sua radiolina, non gli piace Einaudi evidentemente e gli preferisce qualcun altro perché il sole non si è portato via i piccioni nè i bambini, ma i bambini a Milano non rincorrono i piccioni, li confondono con la piazza.
Il tempo è un signore distratto, oggi, a Milano e non prende l'aperitivo in galleria, il tempo è fermo accanto al pianista e ha una felpa bianca col cappuccio.
Mi guarda scrivere contento di passare osservato prima che anche io passi, ma alla prosa.
Milano non è questa, Milano non sta qui.
Questa è solo la neve, sul Duomo una volta che si gira la palla di vetro.

martedì 9 marzo 2010

Però, poi, dopo ci sono le leggende del non amore. Come svegliarsi non si sa in che letto, così, all'improvviso. Però, poi, dopo ci sono le leggende della non esistenza. Come svegliarsi sempre nello stesso letto, così, all'improvviso.

Questa non è una storia perché non inizia e tantomeno finisce, questo è un sorriso perfetto nella perfezione dei tratti di marmo ed è facile capire perché le statue non piangono mai.
C'era una volta un principe che abitava in un castello di cristallo e c'era una volta un re che i castelli di cristallo li costruiva e poi li demoliva come un sisifo di Murano.
Una cosa avevano in comune il principe e il re:
un castello di cristallo per berci il vino bianco nelle notti di luna calante.
Ma non lo sapevano.
Il principe tentava di ripitturare le pareti del castello di cristallo a sua immagine e somiglianza e senza chiedersi chi l'avesse costruito e perché l'avesse fatto così fragile, il re, invece, pensava ad un modo veloce per demolirlo quel castello, con meno cocci possibile perché, per lui, senso non aveva più.
Il fatto è che il principe si arroccava sempre più nei meandri di cristallo pensando che potessero dargli una protezione dal mondo che non voleva vedere né conoscere, non perché amante dell'ignoranza, tutt'altro, ma per proteggersi dalle paure che pensava di tenerci fuori.
Forse perciò aveva colorato i muri colore della pietra viva, grigio e nero li colorò, per sentirne l'odore di muffa d'inverno e la frescura d'estate.
Il re dentro i castelli non entrava mai.
Li costruiva per puro spirito estetico e per puro spirito estetico li demoliva non appena arrivava la bella stagione: "estatico d'estate" diceva di essere.
Ma non era ancora tempo.
Molte ere accavallarono le gambe e il principe si dimenticò che il suo castello fosse di cristallo, il re si dimentico che l'aveva costruito e perché.
Entrambi si beavano della loro amnesia e non si curavano del castello che diventava sempre più fragile.
Perché una cosa è necessario che si sappia.
I castelli di cristallo hanno anime di diamante che respirano e lo sanno quando se li dimenticano e anche quando credono che siano qualcos'altro.
La prerogativa dei castelli di cristallo è quella di essere estremamente lucidi e di riuscire a guardarsi attraverso.
E guardare fuori e vedere i re che vivono la loro vita al sole a caccia di tutto ciò che si possa rincorrere, perché i re rincorrono, per antonomasia e non solo per lei.
E guardare dentro, guardarsi dentro e vedere principi che vivono le loro vite pseudoperfette senza sapere che cosa ci sia fuori dal castello per ascoltarli pensare che l'ululato che sentono nelle notti di luna calante sia un sibilo del vento oppure la mancanza di vino.
Non è dato sapere se il castello sia stato buttato giù con un acuto, oppure, semplicemente stia ancora lì a sgretolarsi piano, notte dopo notte, nonostante sia stato ripitturato di viva pietra.
Questa, infatti, è una storia ma non inizia e tantomeno finisce, questo è un sorriso perfetto nella perfezione dei tratti di marmo, però io una volta una statua piangere l'ho vista.
Faceva lo stesso ululato di un castello di cristallo in una notte di luna calante.