martedì 23 novembre 2010

Ma la normalità esiste soltanto nello sguardo pigro degli altri.Nessuno, nell'intimo, può credere alla propria.

Bisogna liberarsi per leggere questo libro, liberarsi dal preconcetto che vuole la letteratura di uno che sulla carta d'identità è sardo come confinata, sola, in mezzo al mare, infarcita di loci communes che fanno tanto folk genuino ma che rischiano di rimandare inesorabilmente ad una trattazione macchiettistica di un popolo.
C'è la Sardegna, sì, in questo libro e c'è Cagliari, una città che perde i connotati aulici per respirarsi i polmoni della sua decadente bellezza piccolo borghese di città provinciale e periferica al mondo.
E' in questo contesto che s'incontrano e nasce l'amore tra Amalia e Serafino, del loro sistema di valori quasi calvinista dove una religiosità morbosa e ossessiva scandisce le loro vite, dove il trasferimento nel borgo residenziale di Scoglio Fiorito porta inesorabilmente ad un richiudersi in sé stessi, in una statica pinguedine che non può che condurre alla follia.
Qui i personaggi, quasi alla McEwan, si fondono con l'ambiente circostante, dove Cagliari, la città, è il luogo delle oscure pulsioni notturne ma, se assolata, della tranquillità familiare, ostentata e mai genuina.
Nessuno qui è positivo, nessuno è libero e i preconcetti si inanellano in una catena di bigottismi vari che si vanno poi a liberare nella Sardegna interna, luogo dell'infanzia che incasella le coordinate dell'essere in un altro sistema di valori a cavallo tra il fantastico e l'arcaico.
Anche l'uso del soprannaturale è delicato e intimo, non è oggettivo ma si palesa solo negli occhi di chi guarda, la bravura dello scrittore sta anche nella capacità di guardare attraverso i suoi personaggi.
Continua lo scandaglio dell'animo umano nelle sue più perverse declinazioni (dove per perversa si legga una follia vera, lucida, non ostentata o di maniera) che lo scrittore ha perpretato lungo tutto il suo percorso narrativo a partire dal primo libro.
E ultimo, ma non ultimo, un elogio alla brevitas di questo scritto che non ha avuto remore a sintetizzare con abili pennellate di colore intenso che una lunghezza maggiore avrebbe, certamente, penalizzato, per poi andare a sfumare nei contorni delle cose non dette, nelle omertà difficilmente sradicabili, incastrate in uno scoglio fiorito a scontrarsi con l'impossibilità di essere altro così, da sempre, tanto che neanche il mare le può sradicare.

martedì 19 ottobre 2010

Running over the same old ground

Un altro passo sulla solita vecchia terra,
un'altra corsa verso una nuova percezione del mondo.

So, so you think you can tell
Tu lo pensi?
Io non ne sono più così certa.
Le dicotomie si sfasciano in un imbrunire di forse
la necessità non esiste più
e la concezione comune di Bene e Male si avvolge nelle spire di una possibilità negata.

Poi va avanti così
per molti chilometri di pagine bianche e di singulti in sussurro,
poi va avanti così
e non possiamo farci niente.

And did they get you to trade
Il baratto sì,
il cedere la propria vita per altri,
il martirio senza sangue di una negazione
ceste di carezze in cambio di un passo avanti
l'ennesma ruota di scorta di un'automobile senza benzina
che ci si ostina a spingere lungo la discesa.

And did you exchange
A walk on part in the war
For a lead role in a cage?


L'abbaglio, il fuoco che brucia.
La strada in salita, la doccia fredda.
Sparpagliamo i pezzi di cuore infranto affinché ne nasca una nuova progenie di creature senza paura, di semidivinità sorridenti.
Deucalione e Pirra della distanza,
chissà dai semi di cuore si possa nascere e non morire.
La terribile sensazione di essere stato in angolo,
l'uno qualunque, nella guerra.

(Sapere che poi non sia così è solo un altro dolore da aggiungere alla pila in quilibrio precario, dove, uno alla cima, più grosso di uno alla base, può far cadere tutta la torre.)

La verità sta qui
We're just two lost souls
Swimming in a fish bowl

Pesci al contrario
che usano la pancia come dorso
perché temono la ferita alle spalle.

What have we found?
Il calore dell'esistenza improbabile
il palpare le notti per sentirle reagire sotto le dita
le urla soffocate in un cuscino
la pioggia
i sogni ricorrenti
la pioggia
le cartelle da scambiarsi per aiutarsi nella salita
la pioggia
gli occhi da orientale
la pioggia
un sussurro
la pioggia
un sussurro
la pioggia
fino alla fine.

The same old fears.
Ritornate fuori dal baule dove erano state dimenticate
ingigantite dall'assenza
nutrite dal silenzio
eccole tornare, le medesime.

Cacciamole,
cacciamole nell'unico modo possibile.

Per questo.
Wish you were here.

lunedì 18 ottobre 2010

LA SINFONIA DEL SENZA - Primo Movimento

2 La rota

Prima di tutto viene il freddo.
Secco, totalizzante, parte dalle ginocchia dai polpacci, corre in un lunghissimo brivido ma è quando raggiunge le spalle che diventa inafferrabile.
Allora tutto è una morsa di gelo che avvolge completamente e al quale ci si può solo arrendere ballando la danza del tremore, acciambellati, perché le ossa si scontrino l’una con l’altra per tenere il tempo.
Non c’è nient’altro che il freddo che continua ad avvolgere finché non entra dentro ed è impossibile da scrollare via una volta che ha raggiunto il cuore e anche i battiti vanno al tempo del tremore.
Come se a tenerti in vita fosse una sostanza esterna, come se non ce la facessi più con i cani che ti mordono la pancia.
Da dentro.
Quindi pare una soluzione rimanere arrotolati su sé stessi in attesa che la mancanza venga colmata e sai che le scelte sono sempre due.
Dicotomiche.
Morire o guarire.
Per tutto il tempo dei capelli strappati e delle braccia divise dal corpo, poi l’apnea e l’aria che se ne va.
Il momento del palliativo, della sostanza simile, dell’effetto di “forse può andare bene anche così” e invece no, non è la stessa cosa, lo senti ma ti adegui e nell’adeguarti, urli.
Morderti i polsi, perché un altro dolore ti faccia dimenticare di quello più forti, dove le vene ostentano un battito che vuole farti credere che vivi ancora.
Tra le due alternative la prima è quella più vitale.
E no che non bastano i surrogati, è proprio quella sostanza che vuoi, quella stessa che ti rendeva una creatura meravigliosa prima che decidessi di farla finita.
O che qualcuno decidesse per te.
Ma non ti prendere in giro, non ora che sei a buon punto, lo sapevi che quel bene era sbagliato, lo sapevi che ti avrebbe giovato solo per un momento e adesso ci ripensi, ma era lo stesso stare bene che avevi atteso da una vita, l’apice dove guarire e un imposizione del mondo e, forse tu, fra le due, avresti scelto la più vitale.
Poi il controllo costante di chi “ti vuole bene veramente” che ti allontana dalla pericolosa dipendenza, che fa di tutto per toglierti dalla testa quella roba che ti ha rubato l’anima.
Non sei più quello di prima, lo vedono gli altri nei tuoi occhi sempre altrove, lo vedi tu nella tua estasi.
Poi i muscoli si irrigidiscono e continui a dire cose incosulte e inconsuete: il delirio.
Sbatti la testa al muro e ti appoggi alle porte per sfondarle, perché vuoi la tua dose di benessere, la rivuoi.
Subito, perché della seconda possibilità non te ne frega nulla, subito, ben venga la prima scelta anche per solo un altro momento, morire così, piuttosto che non aver mai vissuto.
Nessuno alle porte, troppe chiavi a chiuderle e tu sei troppo debole per insistere.
E allora dormi, un sonno pieno di incubi e di sudore, un sonno pieno di mancanza e di solitudine, il sonno dei perduti dove affoghi senz’acqua perché anche quella ti è stata negata o così ti pare, come ogni gesto della quotidianità senza la sua mediazione.
Succede che poi un giorno ti alzi e non ti fa più male nulla.
Succede che ti alzi e riesci anche a sorridere a qualcun altro.
Succede però che se pensi a quel tempo, diventa per te impossibile non andare a cercarla.
Succede che cammini per strada, ma niente è più uguale a prima di allora.

domenica 3 ottobre 2010

Piove a Milano

Milano sotto un acquazzone di malinconia che fa sentire la nostalgia mentre le cose ancora accadono, piove a Milano.
I tavoli dei Navigli hanno perso le tovaglie e rimangono lì nudo legno scuro come iridi di occhio troppo nero per essere fissato.
Piove a Milano e prima non pioveva aspetta che sia il momento giusto, Milano, per pioverti addosso tutte le lacrime che piangerai domani col sole pallido.
Piove a Milano, nel momento esatto in cui è necessario perdersi e non lo si fa per paura di non trovare il ritorno e no, i passanti da sotto agli ombrelli indicherebbero senz’altro la via più facile e noi, della via più facile, non ce ne facciamo niente, a Milano.
Le case di ringhiera si sciolgono per un contatto di ginocchia fintamente distratto, le guance si arrossano in attesa di una goccia di pioggia a mitigarne l’imbarazzo, così piove sulla Milano del grigio pallido.
I Navigli si gonfiano in un respiro affannoso che non riesce a star dietro ad un cuore che batte troppo veloce, piove a Milano in un effetto scenico da film in bianco e nero, piove in una Milano sorniona e ipnotizzata.
- E’ bella la pioggia.
- Sì, è bella.
E poi niente che tanto la circolare interna neanche si sente sferragliare quando piove, a Milano.
Dopo è necessario lanciarsi sotto l’acqua per sentire che ancora le mani ti appartengono e non le hai vendute in cambio di un happy hour, infatti dell’ora felice non importa a nessuno, ciò che conta è un contatto fugace.
Piove sulla Milano dei distratti ché l’ombrello è fatto per essere riposto nel fondo di borse troppo grandi e l’odore del bagnato sul cemento è già l’indicazione giusta di dove si sta andando, piove a Milano, finalmente.
Bisogna schivare le rotaie dei tram, e correre fianco a fianco alla porta Ticinese, quella nuova per fingere di bagnarsi di meno, come che smetta di piovere, a Milano.
E allora perdersi, tutt’intorno alla circonvallazione, vagare con la pelle d’oca e il sorriso dipinto mentre piove ancora e sempre ed è vietato parcheggiare quando piove, a Milano.
Andare senza meta e senza fermarsi, come che la pioggia e il traffico a Milano siano non solo compatibili ma anche belli.
Non ci si può accarezzare sotto la pioggia di Milano è concesso solo un abbraccio troppo veloce per ripararsi dall’acqua.
Mentre di nuovo si attende la pioggia.
Che un’altra volta piova, a Milano.

mercoledì 29 settembre 2010

L'Inventario

Un inventario che niente inventa serve solo ad essere spiumato per un m'ama o non m'ama ad effetto pelle d'oca.
Quello che rimane della nudità dell'essenza.
In rigoroso ordine alfabetico si è trovato negli scaffali solo quello che di superfluo avevamo, necessariamente, conservato.
Poi si piange,
ma sempre e solo un minuto dopo.
D'amore o di noia, l'importante è che ad una certa ora si pianga, in rigoroso ordine alfabetico, sì, anche le lacrime.

Aghi e canzoni,
amore irrisolto,
amori impossibili perché già segnati,
ancora lutti e ancora parole,
attese e pretese,
attrazione per il mare,
cacao e sigarette,
capelli troppo lunghi,
cassette da girare su un lato B registrato male,
ciglia troppo lunghe,
città altre,
cuore ballerino,
curiosità,
espulsione dal mondo,
fuga da sé,
il mare carceriere,
il mare liberatore,
lacrime e demoni interiori,
lutto costante,
mordere l'inafferrabile,
Musa di tutti, amante di molti, vita di nessuno,
musica negli angoli,
notti con gli occhi aperti,
occasioni che dovevo perdere,
occasioni perse,
occhi da orientale,
orizzonti,
ospedale e puzza di alcol denaturato,
parole antiche,
parole collezionate,
parole dimenticate,
Parole immediate,
parole meditate,
parole rimate,
parole riviste,
parole scandite,
parole scritte.
passioni,
paura dell'abbandono,
piaghe sulle mani,
poesie dedicate,
repulsione di sé,
rincorse e fughe,
scatole di lettere,
sesso irrisolto,
sogni,
solitudine e puzza di alcol etilico.
statue di Santi,
suoni della terra,
una bussola tarata bene,
valigie ed aerei,
vestiti troppo larghi.

E adesso non vi resta che traslocarmi.

domenica 22 agosto 2010

La numero nove

Panta rei,
tutto scorre, sì e questo ci è noto.
Del resto non gliel’abbiamo chiesto noi di farlo volare questo tempo.
Una volta ho provato ad ammazzarlo,
senza successo è lui che, al massimo, al fine del tuo tempo ti fa fuori
insomma, vince sempre lui da qualsiasi parte lo guardi.
Così passano gli anni
E ne passano diciannove, oppure nove a seconda dei punti di vista
che non mi si obbietti che da quel giorno, di anni, ne sono passati ventisette
inutili sofismi del resto non si conosce quale computo noi scegliamo del tempo.
Diciannove oppure nove.
La cifra tonda, lo zero, non c’interessa, molto meglio l’ellissi dell’incompiuto ché se aggiungi uno rotondeggia da sé.
Ma in fondo che importa?
Nove o diciannove.
Scegli.

Nove.
Come il numero di lettere spedite, come le notti passate a scriverle.
In baule devono stare le lettere magari con un oggetto a far loro compagnia, che se tu peschi a caso ti ritrovi a mano la cristallizzazione di un attimo e ci puoi attraverso per vederti tanto tempo fa, indietro e indietro ancora dall’uno al nove.
Le lettere sono solo lo spazio in cui un oggetto diventa ricordo, ed è il loro ritorno che fa arrivare Melancolia vestita di azzurro perché i ricordi sono azzurri, come l’inchiostro sbiadito delle vecchie lettere.
Così sono nove cose a tre a tre orecchini, sigarette, diari.
Ma poi cambia e gli oggetti si dividono, ognuno ne ha uno per sé.
Veli da sposa e pergamene accademiche.
Ciucciotti e valigie.
Case da arredare e camere in affitto.
Come se ci fosse dicotomia, ma tanto si ritorna sempre alle trilogie:
occhiali, libri e chiacchiere
tre volte tre fa nove, ma anche solo due è abbastanza.

E poi viene il diciannove.
Che ha l’odore delle conserve di pomodoro messe a bollire nelle estati infantili, bambine anche loro.
Che ha il bruciore dell’acqua ossigenata sulla ginocchia sbucciate.
Che ha il colore di un tramonto ritardatario tanto da far dire: “mamma ancora cinque minuti” .
Che ha il sapore della frutta per merenda.
Che ha la voce che alle cinque passa a chiamarti.

Scegli, nove, diciannove, o adesso.
E adesso, come allora, ha sempre la stessa musica di sempre, due squilli di campanello e passi di corsa sulle scale.

mercoledì 30 giugno 2010

… per mezza Toscana si spazia/ un fiumicel che nasce in Falterona/ e cento miglia di corso nol sazia. (Firenze)

Perché una città esista c'è bisogno di un fiume altrimenti può anche decidere di smettere di chiamarsi tale, poi non importa se quel fiume ha le acque gialle o marrone, è normale che sia così se da dovunque ci si arrivi per bagnarci i propri panni (sporchi) o lavarci i propri pennelli nella speranza che le cose fatte e dette possano trarre beneficio da quell'acqua miracolosa.

Di miracoloso quell'acqua ha solo il fatto di essere ricettacolo per le zanzare e di essere immortalata nelle macchinette compatte di migliaia di persone ogni giorno, Eraclito, però, una notte mi ha sussurrato in un orecchio che panta rei e io gli ho creduto, così mi sorprendo a ridere di quegli stolti che non hanno fermato un bel niente e che dopo qualche secondo, per dovere si cronaca dovrebbe rifarla, quella foto.

Camminare nelle vie che dovrebbe essere tutte chiamate Del Bello per semplificazione e qualità dove ci si orienta subito.

Il segreto sta tutto nella solitudine.

Bisogna percorrerle da soli quelle vie mentre s'indugia nel "ragionar d'amore" perché si ragiona meglio da soli che in due e immaginare di essere in coppia tra le vetrine degli antichi gioiellieri non può che disturbare il cammino verso la casa dei Granduchi, bisogna essere soli e piccolini per schivare le alte germaniche intente a rimirare la pacchianeria.

Così soli si deve stare, senza alcuna parola che distragga le orecchie, che faccia volgere lo sguardo, così si deve rendere omaggio a Davidi e Leoni, da soli a tu per tu, perché due paroline bisognerà per dirgliele, invece, a quelle orecchie di marmo o bronzo senza che orecchie di carne o cartilagine vi assistano.

Poi gli scuri di quel Caravaggio che si ama incondizionatamente, senza parole, lui, solo immagini che si infrangono a ondate regolari all'altezza dello stomaco, la spiaggia del naufragio di una medusa o di una decollazione.

Ma è quando arriva Primavera che il Rinascimento si opera anche dentro chi a quelle passeggiate solitarie vi era arrivato un po' morto, non si piange da soli, a 40 gradi all'ombra, non si piange mentre i giapponesi sfilano regolari alle tue spalle, non si sta un tempo innominabile a divorarsi una parete con le pupille, dovrebbero mettere dei divieti agli ammiratori solitari, o perlomeno l'obbligo di dire Grazie, tutt'e tre.

Poi trovare lettere scritte in una tomba, romantico o stilnovistico a seconda della sensibilità, alla musa di tutto ciò che si può dire a parole, cestini dalla bellezza opinabili ricolmi di ex voto alla dea dell'amore corrisposto nell'anima, all'amore puro quello che non ha l'odore sudato della contingenza, quello che non si spegnerà mai perché mai può sentire il sapore delle labbra, quello che è sempre perché non potrà conoscere il mai.

I passeggiatori solitari non hanno sicuramente il coraggio di lasciare la loro missiva in quel cestino, di mischiarla con altri idiomi, altre storie, del resto cosa c'è da dire sull'argomento che non abbia già detto lui?

Beatrice, colei che porta beatitudine, ognuna delle donne che vagano per la città medievale prima e quella medicea poi, da sola, ognuna delle donne che si sono perse nella calura inseguendo farfalle e ninfee nel giardino di Boboli, ognuna delle donne che ha amato Santa Maria Novella e che ha salutato con un cenno del capo un Brunelleschi intento a rimirarsi la sua cupola avrebbe voluto essere una Beatrice, almeno una volta al mese.

Se qualcuno di questi viandanti si fosse fermato a scrivere su un pezzo di carta di fortuna avremmo letto

"Fortunata tu, tra le donne ad essere amata di un Amore trascendente.

Fortunati i tuoi tempi, nei quali si poteva essere cantate.

E all'oggi, io mi attacco ad un amore trascendente, puro perché in consumato e inconsumabile

Qualcuno millanta che non può esistere ma è l'unico Amore che non passa mai perché è quello che mai ha avuto modo di finire."


 

venerdì 14 maggio 2010

Nox est perpetua una dormienda

Ti è piaciuta la dolce vita?
No, non è un'aggressiva campagna promozionale per l'astinenza da crociera ma una lecita domanda, Ennio Flaiano ha scritto questi due racconti mentre collaborava a soggetto e sceneggiatura del capolavoro Felliniano ed è quindi ovvio che i due testi s’influenzino moltissimo tra loro, se non ci credete, chiedetelo ad un mostro marino spiaggiato sul lido laziale.
Una e una e una notte fanno due.
Sono l'yin e lo yang questi due racconti, il negativo e il positivo della stessa fotografia melanconica e fatiscente di una decadenza languida: quella della città vuota piena di lustrini e paillettes e quella del mare in autunno il giorno dopo l'abbandono dei bagnanti.
La Roma della dolce vita di via Veneto e dei caffè è appena accennata nel racconto numero due "Adriano" ed è impassibile e di sfondo nel primo che da il titolo al volume; una splendida Roma triste che ha la bellezza languida di una donna di sbieco su un sofà, sorniona e imperturbabile, lei, che non si concederà mai ma si lascerà ammirare. Bellissima, come tutto ciò che non si può avere.
Poi c’è un altro mondo, la campagna laziale e il suo mare invernale, il lido di Ostia e poi ancora più giù, pescatori con le loro mitologie vecchie e nuovissime, sirene e tv, in un mare d’inverno dalle tinte seppiate, location ideale per chi ha paura del foglio bianco, di chi lo ingiallisce un po’ per poterlo ammansire cosicché non morda.
È nel lido che si compiono i miracoli, bisogna lasciare Anita Ekberg bagnarsi da sola alla fontana, bisogna andare verso il mare per capire quello che Sherazade raccontava, per viverle, le avventure e ritrovarsi ad incontrare l’alieno e scoprirsi i veri alieni così, scrittori di una pagina che mai ha visto la luce ed appagati da prostitute/amiche compiacenti che guardano la terra dall’alto e a nient’altro aspirano che a tornare affinché la loro pagina rimanga intonsa.
Una notte, e una notte e una notte ancora, nox est perpetua una dormienda, Catullo, sì e il suo otium, abbandonato anche lui mollemente tra le lapidi di una necropoli romana con i nomi di patrizi obliati e pellegrini di un santuario di campagna anch’essi fellianiani (o flaianei ?) inconsapevoli e maestosi nella loro faccia di terracotta o faccia di alieni, c’est a vous.
Piovono riferimenti continui è una scrittura sempre altissima quella di Flaiano, una mano di acquerello su un mondo dai contorni nettissimi utile a stemperare l’icasticità del mondo esterno con un’ottima dose d’interiorità melanconica.
La malinconia da sciogliersi zolletta a zolletta nel calore di un tè di acqua dl mare d’inverno bevuto in un’altra galassia.

Una e una notte
Ennio Flaiano
Adelphi 2006

martedì 11 maggio 2010

Come sono quando pensi a me?


Sempre è difficile essere la compagna di una vita se la vita è quella di chi con le parole ci vive, tocca stare muti e arrendersi un po' ogni giorno per non uccidere.
Ed eccoci amore, in questa cucina con l'angolo del tavolo illuminato solo da quell'abbaino, tu mi hai insegnato, amore, molti anni fa, quando i capelli mi sfuggivano dal nodo incroccicchiato in cima alla testa, che era bello perché era uguale ad abitare in un Caravaggio quando si convertiva Matteo e io ridevo, con gli occhi grandi, dicevi, e ti chiedevo che cosa dovesse convertire questo Matteo, tu rispondevi "sesterzi in fiorini" e io ridevo ancora.
Ti parevo una musa dalle mani in un'apnea di lavello e schiuma per piatti, poi me le asciugavi, le mani, con gli strofinacci a quadretti e ti toglievi la penna dalla bocca per baciarmi le labbra; un movimento naturale, il tuo, prima che un'altra metafora t'inciampasse negli occhi e ti allontanassi per segnarla su un foglio e allora mi parevi Leonardo più che Pessoa, io te lo dicevo e ridevi tu.

Come sono quando pensi a me?


Me lo sono sempre chiesta in questi trent'anni da quando mi hai portata qui in un sottotetto dalla campagna provenzale, anche se io questa Provenza non l'ho mai vista, mi hai detto che ero il centro di ogni tua idea, che non avevi visto mai grano più dorato dei miei capelli e che avresti voluto mangiarmi così che fossi il tuo pane quotidiano, e io avevo sgranato gli occhi, verde prato, avevi detto tu con parole molto più belle di queste ma la mia mente non è come la tua, io non posso ricordarle.
Gli specchi mi mentivano e io fino ad allora ero convinta di avere i capelli e gli occhi neri come la notte e il luogo dove vivevo era arido e bruciato dal sole come la mia pelle, la verità stava in una goccia d'inchiostro ancora dentro la tua penna.
Ha piovuto tanto nei nostri occhi, anche quando sussurravi il mio nome, quelle due sillabe che avevi inventato tu, il mio era lungo e cacofonico, dicevi e io non lo ricordo più, è sempre stato quello da allora, due sillabe, perché la metrica della confidenza non si guastasse.

Come sono quando pensi a me?


Qualcosa che non si crea, il suo centro.
Forse solo l'eco di due sillabe, sono i contorni di un centro che è tuo, sei tu quello che ho trovato stamattina, quando facevo il tè per entrambi uguale uguale a trent'anni fa in balia di una rima che allacci anche questo come trent'anni fa, o il tempo è fermo o sono io che vedo i tuoi capelli incanutirsi e il tuo respiro andarsene.
Però, sai amore, la tua ombra ha una forma diversa come se si fosse spostata, come se fosse in bilico tra qui e un altrove in cui non mi posso specchiare, forse dove avrò di nuovo i capelli neri come l'ala del corvo o, ora, bianchi, o il tempo è fermo o sbuco da un riflesso di pazzia.
Mi sento dissolvere, le mani per prime, tanto che no, la tazza non la posso trattenere e si spacca per terra con un fragore da castello in aria che crolla.

Come sono quando pensi a me?


Se nei tuoi occhi c'è la nebbia anche io mi dissolvo, l'esistenza donata, creata ogni giorno dalle tue parole, l'alternativa è la mia non esistenza, di sole parole vive la moglie del poeta e io mi sento dissolvere, il logos creatore impronunciato, il silenzio che mi toglie anche le gambe addosso, la carta bianca che mi lascia gruccia di un vestito alla moda provenzale.
Seppellita in una risma di carta candida, amore, ghiacciata dal Generale Inverno, mi piaceva quando di fronte al camino mi raccontavi di Napoleone e di Waterloo, mi piacevano le storie delle sconfitte perché poi, anche nel mio silenzio, avevo il privilegio di avere un grembo utile alla consolazione.
Io che non ero triste mai perché la tristezza la mettevamo nel barattolo dei biscotti, spicciolo a spicciolo non appena ce la trovavamo in tasca, per i periodi di magra doveva servire, per quando non ne avevi abbastanza per intingervi il pennino.

Come sono quando pensi a me?


SILENZIO.


potessi amore, esser nemmeno una donna, ma il punto esatto del foglio dove ti scivola nero il tratto di penna.


mercoledì 28 aprile 2010

LA SINFONIA DEL SENZA - Prima variazione

1 L'amputazione

Alla fine aveva accettato si sarebbe lasciata privare della mano.
Le congratulazioni piovevano sul suo capezzale neanche fosse un genetliaco o uno sposalizio.
Aveva accettato, quasi sorrideva perfino, tutta contenta per avere finalmente preso la risoluzione più notevole di una vita o due.
Si sarebbe lasciata privare della mano, un'idea folle le pareva fino a qualche ora prima quando la fissava ormai gonfia e ammalata, stava lì come un suppellettile morta,livida, inservibile.
Pareva che anche la mano la guardasse dalle dita, però più indifferente, come a dire "se mi lasci qui o mi lasci andare a noi cinque non cambia niente".
Ma non se ne voleva privare, apprezzava il fatto che si ostinasse a rimanere lì malgrado tutto, era lì anche lei da una vita o due, ma questo apprezzava più di tutto: il fatto che nella buona o nella cattiva sorte ci fosse sempre, per farsi una carezza.
C'era anche da dire che si trattava della sinistra, non la usava poi molto, forse serviva solo a mantenere l'equilibrio come la coda delle scimmie.
Ma brava, dicevano tutti, molto bene, ripetevano e lei tirava su la testa raccontandosi da un orecchio all'altro che era di certo la soluzione migliore quella di affrontare una privazione per non dover rischiare la vita, una scelta quasi obbligata, si leggeva in fronte da un occhio all'altro specchiandosi nei giubilanti astanti.
La tua mano ti è inservibile così com'è, dicevano, ti può solo fare più male, ti blocca malata e a letto, senza la mano potrai vivere di nuovo.
E si era lasciata irretire da tutta questa propaganda pro bisturi convinta davvero che potesse riprendere a vivere.
Aveva deciso di non accomiatarsi dalla sua mano neanche fosse un arrivederci a presto, non le interessava spiegarle le sue ragioni che erano ben vaghe e poi si sa, le mani non hanno volontà propria se no ben diversamente si sarebbero comportate e avrebbero evitato di farsi incancrenire.
Si sentiva anche leggermente trascurata negli ultimi tempi da quella mano un po' parassita che viveva di rendita di quell'altra, in altre faccende affaccendata, solo una cosa sapeva fare: accarezzare e non era abbastanza per preferire lei alla vita che le si prospettava allegra e piena di cose migliori di una mano sinistra.
E così aveva deciso di lasciarsi privare della mano, che tanto bene le aveva fatto e che adesso le faceva solo male.
Tolle, tolle, tolle!
Gridava la folla da sotto il balcone della sue lenzuola e così si fece fare.
Una mano di plastica le avevano promesso al risveglio e poi, forse, se la ricerca avesse proseguito come loro si auspicavano, gliene avrebbero impiantata una di qualcun'altra.
La sognò, quell'altra mano, durante l'atto di privazione, una fredda mano di plastica, utilizzabile, efficiente ma fredda come le sette di sera a febbraio.
La sognò, quell'altra mano, durante la potatura di sé, una mano più chiara, pallida, estranea che non la conosceva come quell'altra, che di certo come lei non sapeva accarezzare.
Così si svegliò in lacrime e fu molto il suo stupore nello scoprire che lì fuori, senza una mano sinistra, c'era ben poco da vivere, non ci si poteva neanche legare i capelli.
Ma il pianto più forte le venne nel sentire il dolore di lei, che più non era, parecchio più forte di quando era.
Piangeva con singhiozzi da apnea nel constatare che non poteva neanche tenere la sua autobiografia in mano e sfogliare le pagine.
Urlava e si strappava i capelli (solo sul lato destro) quando aveva capito che l'unica cosa di cui aveva bisogno era una carezza.

lunedì 19 aprile 2010

Eyjafjallajökull

"Le parole sono importanti" e siamo tutti d'accordo.
Le parole sono fatte per essere pronunciate prima di tutto e poi, nel caso, per essere scritte come quando si dice Bene.
Il male interviene quando le parole diventano impronunciabili tanto che non si può dare più un senso al nesso signficante/signficato e così passano sotto le ascelle dell'ascoltatore, nella zona più calda, per esservi custodite, un buon modo per bloccare i continenti.
Così la stessa parola "impronunciabile" diventa alibi, la desueta gag di non dire "amore" perché sarebbe troppo, quei retaggi da primo comandamento dove "innvano" è il secondo alibi.
Bisogna strizzare le palpebre per rendere le parole intelligibili, l'inumano sforzo della comprensione seguita solo dalla vertigine della pagina bianca dove non c'è parola. Il regno candido della non-esistenza.
Arriva poi il momento in cui è necessario pronunciarle, certe parole, e il terzo alibi è pensare che non appartengono alla tua lingua.
Inesatto, quantomeno, le parole sono parole per sé stesse ed è inutile tenerle in fondo alla gola, dopo duecento anni verranno fuori e avranno effetti devastanti.
Inutile tenerle a montare dentro in attesa di un'esplosione perché sarà troppo, una cosa stile quattro cavalieri e, forse, anche un po' di più quasi da far dimenticare ad Icaro come si vola e lasciarlo afflitto e interdetto a terra col naso all'insù.
Le polveri sottili, la conseguenza fortissima delle parole esplose, la detonazione senza appello le cui conseguenze hanno la forza di cambiare il modo di leggere un'umanità, forse due, l'umano che parla e quello che, suo malgrado riceve le parole.
E quello che le parole le riceve suo malgrado, polveri sottili dentro le narici fino ai polmoni, potrebbe anche prenderle e impacchettarle per riciclarle domani, visto mai che possano tornare utili da vendere a qualcun altro o tenersele buone per poter loro dare la colpa.
Così si cerca di pronunciare Eyjafjallajökull, che è facile, molto più facile che pronunciare il proprio nome (il dolore del riconoscimento) o di quello altrui (il dolore del riconoscimento), che è facile, molto più facile che unire due nessi.
la scelta di andare con il fumo lacrimevole a sbattere in faccia alle detonazioni.

E la verità della parola non fa prigionieri perché tutto divora e di tutto fa prova.

Sono passati diversi anni dall'uscita di Gomorra ma a me non piace lanciare la pietra quando nella pozza ci sono ancora le onde d'urto di altre mille pietre, distratta non vedo più fin dove può arrivare l'onda, dove finisce la sua potenza.
Mi aspettavo un fenomeno, ho trovato un noumeno,la letteratura che parte dal racconto, quello di una verità pesante come un'ecoballa alla diossina.
Di Gomorra, adesso, ho sentito l'urgenza, adesso, perché è facile infangare chi si occupa di raccontare, di usare la parola per canalizzare quello che gli occhi vedono, quello che la pelle sente, adesso, dopo che qualcuno bòatera dubbi e ho voluto leggere, adesso per poter farmi la mia idea ma ho memoria storica e mi ricordo cosa succede in questo stato a chi scrive bene scomodando i poteri.
Non è fredda cronaca nè scandalo novello, è semplicemente il racconto di una vita che dal momento in cui la parola è stata detta non ha più lo stesso verso di scorrimento, una diga sul fiume, o qualcosa che gli assomiglia ed è la scelta di fronte ad una tomba in Friuli e non dirò altro anche ci pensi a quel paragone gigantesco, pagina dopo pagina.
Non posso dire nulla del contenuto che già non sia stato detto, lodato, infangato, scritto e sproloquiato ma questa lettura è urgente e necessaria.
Mi piace come Saviano sia bravo a non perdersi nella demagogia, così a portata di mano per descrivere certe situazioni, mi piace il suo modo di scrivere che attanaglia ai visceri e la puzza di sangue e cadavere la senti davvero.
La parola di chi ascolta le cose alle sue spalle e non ha paura di diventare una statua di sale nel voltarsi a vedere la sua Gomorra che brucia.
Così ci sono laghi piatti, senza onde, laghetti che al massimo fanno incontrare sposi promessi o da farci l'amore stando ai festival nazionalpopolari e ci sono anche persone che vi gettano pietre per vedere se è vero che l'onda si propaga in centri concentrici e prima o poi arriva lontano fino a perdersi.
Lettura indispensabile.

Gomorra
(Viaggio nell'impero economico e nel sogno di dominio della camorra)
di Roberto Saviano
Mondadori, 2006

sabato 10 aprile 2010

Quando così il mio dramma si complicò, cominciarono le mie incredibili pazzie

(Una di Due)
“Io volevo esser sola in un modo del tutto fuori dagli schemi, nuova. Esattamente all’opposto di quello che pensate voi: cioè senza me e appunto con un estraneo attorno.
Questa la chiamate pazzia?”
Forse perché non riflettono bene, mia cara, in fondo cosa ne può sapere il mondo della sventura di essere solo una delle immagini del sé?
Una delle Tante e Nessuna delle Centomila.
Storia vecchia cara mia, puzza di stantio il tempo in cui mi evocasti, tirandomi fuori da una gruccia dell’armadio, me, la tua estranea per riuscire finalmente a sentirti un po’ più sola.
“La solitudine non è mai con me”, dicevi, “è sempre senza di me”, però non è mai sola ci vuole sempre un estraneo che la abiti, sia pure un soriano che eviti accuratamente di strusciarsi sui tuoi polpacci, così mi hai inventata per tenerti compagnia, ignorandoti. Hai fatto in modo che la tua casa diventasse la mia, che tu fossi un ospite sconosciuto nell’ombra, il ragno inconsapevole lassù, nell’angolo di destra, a tessere una tela di incoscienza di te.
Però, una volta, abbiamo provato a conversare, faccia a faccia, ci assomigliamo noi due, qualcuno direbbe che siamo due gocce d’acqua, ad altri parremmo solo simili, parenti lontane, forse, sarà per quell’appendice nasale che vira tutta a dritta.
Mi chiedevi chi eri tu, volevi vederti, e quanto orrore provammo entrambe nello scoprire che non lo sapevamo, che non saremmo riuscite a scoprirlo guardandoci, perché io, se ti grattavi la testa col braccio destro, me la grattavo col braccio sinistro e quest’asimmetria era sconcertante.
Non eri tu quella da questa parte, come quella dalla tua parte non ero io, e nessuna delle due aveva la forza di arrivare fino all’armadio per portare giù l’Ulteriore, lo sapevamo entrambe, sarebbe stata una terza e uno sguardo in più che ci avrebbe ignorate.
E di uscire no, di uscire non se ne parlava, ti saresti raddoppiata ancora, infinite volte, centomila volte, ti saresti frantumata come un prisma nello sguardo di Chiunque, saresti diventata un chiliagono, saremmo state troppe, allora, qua dentro.
Perché già i nostri occhi bastavano a farci tremare il labbro, perché già provavamo pudore a mostrarci tra di noi, ci scambiavamo le boccacce per vederci dall’esterno, ma quanto tutto questo era falso e insipiente, mossette da teatrino dilettantesco, noi, civettuole.
Ma la realtà, dov’era la realtà, qual era il vero aspetto di noi?
Intanto a questa domanda non ti rispondevi e ancor meno lo facevo io; continuavi a tormentarti i riccioli neri imbronciata, io ti vedevo e per reazione anche io mi tormentavo i riccioli neri, ma dall’altra parte, chi delle due aveva iniziato per prima?
"E gli altri?” ti chiedevi “Gli altri che guardano da fuori? Vedono le mie idee, i miei sentimenti che hanno un naso. Il mio. E occhi,di pece, gli stessi che io non posso vedere. Che relazione c'è tra le mie idee e il mio naso?”
E mentre tu ti preoccupavi di far quadrare il bilancio tra l’Iperuranio e il tuo naso io pensavo agli occhi, non avrei mai potuto guardarmi negli occhi.
Potevo solo fissarli nei tuoi e a tempo limitato, quando decidevamo di alzare la testa ma, ci scrutavamo entrambe, come se all’improvviso si dovesse compiere non so quale prodigio per il quale dalle pupille dovesse saltar fuori un coniglio.
La realtà è che io non potevo vedermi vivere e, tantomeno, guardarmi negli occhi.

(Due di Una)
L’altro giorno passeggiavo in questa città che non ha neanche una salita, è strano per una città, non puoi neanche sperare in una discesa che ti allevi il passo al ritorno, ad ogni modo, non volevo che Nessuno mi guardasse, cercavo la solitudine perfetta, quella vera che può compiersi solo nello sciabordare di gente avanti e indietro nella strada dello shopping, alle sei della sera.
All’improvviso vidi una sconosciuta, la vidi con la coda dell’occhio, Una che passeggiava come me ma dentro una vetrina, Una col cappotto a quadretti identico al mio.
Solo poi la riconobbi.
Era lì che faceva quello che facevo io, ma dall’altra parte, era me, adesso lo sapevo, era me come mi vedevano gli altri passare per via in un attimo di distrazione, una delle tante in città.
Forse avrei potuto braccarla in un attimo di vitalità, e chiederle come ci si sentiva ad essere me ma dall’esterno.
«Che hai?»
Le chiesi a bruciapelo e mi fermai a guardarla.
«Niente»
Mi rispose con una voce che sentii con le orecchie dall’interno delle mie viscere.
Finché m’illuminai e tutto mi fu improvvisamente chiaro..
"Sono anche io così, quando non penso a me stessa pensante? Dunque per gli altri sono quell'estranea imprigionata nella vetrina".
La cosa mi fece orrore assoluto.
Ferrea Logica che, da sempre, mi distingueva, macinò per me pensieri fino ad insinuarmi, piano piano, sotto pelle l’idea che quella che vedevano gli altri era lei e non me e, forse, altre Centomila ce n’erano in giro, una ogni due pupille che incrociavo a seconda di chi mi vedeva e delle idee che aveva su quel cappotto a quadri azzurro.
Ad ogni modo si trattava di esseri estranei da me, non ero di certo io tutte quelle, non le conoscevano, non sapevo cosa facevano, che pensavano.
Iniziai a tremare, volli subito tornare a casa, sapevo che c’era, sapevo che era lì che ne avevo una nascosta nell’armadio grande.
Volevo studiare lei, per vedere me, la sua estraneità era la mia solitudine.
La trovai, in una gruccia, e la appesi alla parete di fronte al letto.

l'originale

lunedì 5 aprile 2010

Comequando tornare a casa è quasicome tornare a casa

Ritrovarsi ancora qui, ad Hermosa dunque, tre anni dopo un primo libro, Sardinia Blues si chiamava, e raccontava di come dall’isola si voglia scappare via, di come chiuda, raccontava il suo mondo e di cosa voleva dire essere malati, vivere da malati qui dentro, malati, sognatori e laureati, come te, eri tu.
Le cose cambiano, si possono portare anche altrove le proprie malattie dell’anima e del corpo solo una cosa sanno fare le malattie di tutta la vita, seguirti e ritornare presenti a ricordarti che è un attimo, che quello che sei lo devi rubare a loro in un continuo tiro alla fune o se preferisci un gioco di cani che si contendono un pezzo di carne.
Quel pezzo di carne è il tuo corpo, tu e la malattia ve lo contendete, raramente siete alleate tu e la malattia, raramente, ma talvolta accade, come quando devi spiegare qualcosa a qualcuno o giustificarmi per un ritardo, (da diventare rossi di vergogna sì, ma lo si fa, si scende a patti con lei ogni tanto) ma adesso vedi sempre un po’ meno e se esiste una divinità che non faccia sì che perda gli occhi.
E quindi leggi in fretta, più in fretta che puoi, prima che te li porti via quegli occhi nero d’inferno, prima che faccia uno a zero per lei, non adesso, non adesso che hai quasi imparato a vivere, non adesso che sei altrove e sai cos’è vedere il mare dopo mesi, non adesso che sai piangere appena vedi le coste.
La questione è che non ti possono fare lo scherzo di portarti via gli occhi prima che abbia finito di leggere tra le righe del mondo.
Poi, in realtà, il punto è questo, tornare, il nostos.
Lo dici sempre, lo sai, ma tu sei come lui, come Odisseo, che ha bisogno di essere fuori per sognare di una Itaca perfetta alla quale tornare, ma sei stata anche Penelope, e lo sei ancora, ferma a tessere la tela in attesa di altri ritorni.
Sei Odisseo e Penelope assieme, ma quella di Penelope è un’altra storia, di quando Amore l’ha morsa in quell’angolo teso tra il collo e la spalla e se ti morde lì è finita, aspettare bisogna, aspettare un altro morso che liberi tutti dal ballo di San Vito, la tarantola velenifera che, una volta che ti punge, ripresenta ciclicamente il suo veleno; mortale, dicono che sia, ed eterna.
Aspettare allora bisogna, che passi o che torni, aspettare bisogna un altro morso o, semplicemente, bisogna aspettare che come’è arrivato, il mal d’amore, vada via.
E proprio una tarantola uguale uguale ci vuole per guarire, non un ragnetto che faccia da palliativo, proprio lei e proprio in quel punto, e così Penelope aspetta.
Invece di Penelopi ne hai incontrate molte in questi giorni, pochi, qui ad Hermosa, tutti che si aspettano qualcosa o non si aspettano più nulla basta che il verbo dell’attesa sia nelle loro vene, non aspettano più ma quando ti vedono e come se ti avessero aspettata da sempre.
Perlomeno puzzi di plastica nuova come una bambola appena uscita dal cellophan, la puzza del continente.
E poi sono passati tre anni e prendi in mano un altro libro.
L'epopea di quando l'isola era un mondo e non era molto tempo fa, sempre apprezzi questo modo di leggerla, la nostra isola di Hermosa e la sua gente, autoreferenziale?
Vagoni di autoreferenzialità e ti va bene, alleluia.
E lo sai tu cosa vuol dire guardare il mondo con degli occhi neri neri perché lo fai tutti i giorni, appena li apri, a proposito di autoreferenzialità e allora amen.
Così ti ritrovi con un libro tra le mani e con la consapevolezza delle partenze e del dolore del ritorno prima che ridiventi una gabbia e che tu sia di nuovo lì, incatenata, la ciclicità dei libri nella ciclicità della vita e anche se era il 1700 erotti la paura è la medesima.
Fare la spola con sé stessi e la sposa delle malattie è un lavoro a tempo pieno, così per dirlo una volta per tutte chiaro perché così, dicendolo agli altri, lo tieni per buono anche tu, visto mai che qualche stolto decida di compatirti giusto per evitare di doverlo compatire a tua volta.
Succede che poi alla fine non è poi molto, in fondo ti basta leggere, scrivere lettere da mettere in bottiglia per casuali destinatari e guardare il mare aspettando i pirati prima di decidere di lasciartelo alle spalle col vento a favore del gusto dolciastro dell'assenza.

Il cuore dei briganti
di Flavio Soriga
Bompiani 2010
recensione

mercoledì 24 marzo 2010

Un detonatore

Hai tra le mani un detonatore, scegli tu se farlo esplodere, scegli tu se immergerti dentro a queste storie, se farlo tutto d'un fiato o di lasciarti il tempo di diluirtele addosso.
Ci sono bambine rosa, ci sono moticlette e roulottes, scrittrici per gioco e aborti per noia, ci sono liceali di campagna e disturbanti sono gambe amputate, gelo delle piogge, l'hashish di nascosto.
Piccole storie, piccoli detonatori, da leggersi all'alba se vuoi, mentre aspetti insonne un giorno che tanto vale impiegarle bene quelle ore anziché rivoltarti nel letto e usare quelli degli altri di pensieri che i tuoi sono macigni.
Poi tornare indietro negli anni, a vedere com'eri ad avere paura di come sarai.
Bella la lingua e belli i suoi usi, un primo impatto di una semplicità disarmante che tradisce una consuetudine con la parola scritta preziosa.
Corpi abitati da fantasmi, catapecchie, forse è tutto qui, o nel segreto di una forma che non è la tua, troppo tonda da scegliere se viverla o no tra una versione di Seneca e l'altra, viaggiando per ore prima di raggiungere il liceo.
Ed è l'alba, sì, tra le capanne dei ruscelli quando ti rincorre il fantasma di un cioccolatino di troppo.
Libro notevole.
E questo è quanto fino alla prossima alba.

Una cosa piccola che sta per esplodere
Di Paolo Cognetti
Minimum Fax, 2007

lunedì 22 marzo 2010

L'amore suca come vetro fa diventare

Sono cinquecentodieci pagine che volano via, duecentocinquantacinque volte infilare il dito nell'angolo destro del retro che si sta leggendo per andare a farlo scorrere fino a metà pagina (spesso le dita sono più lente degli occhi) fino ad arrivare a girarla e ad attaccare il retro successivo.
Esercizio per niente difficile in questo caso, esercizio al quale ci si dedica con piacere e avidità per capire come finisce questo romanzo d'amore, come si evolve il suo travestimento da saga familiare e le vicende della protagonista Modesta (mai l'adagio nomen homen fu più azzeccato per indicatare un'evidente dicotomia)una che le vicende dell'amore le conosceva.
Una storia che si dipana dal 1900 al 1960, una protagonista che nasce con quel secolo, il 900, che meglio di qualsiasi altro ha portato allo scoperto il disagio di essere umani declinato, in questo caso, nella sua metà squisitamente femminile.
Più che altro Modesta ama e lo fa liberamente, senza preconcetti o paure, ama uomini e donne, sperimenta la purezza di un sentimento che la fa talmente grande da dare l'idea di un'epopea più che di una vita.
Sono troppe quelle che vive per una persona sola, seppur straordinaria, e altissima è la caratterizzazione dei personaggi che incontra ma è brava, la Sapienza, a non essere mai macchiettistica anche dove ce ne sarebbero i presupposti e alta sarebbe la tentazione dell'irrisione.
Lei, Goliarda, non si perde mai nel populismo nè, pur facendo ben presente la sua vocazione di intellettuale di sinistra, si risparmia strali per i suoi stessi compagni in una visione lucida e intelligente soprattutto della questione femminile.
E' una femminista anche Modesta e tout court, solo che non si perde in slogan o battaglie, è femminista nella vita quotidiana portando fuori la vera natura dell'essere donna e non imitando gli uomini. Vuole esserlo calata nel suo tempo ma l'operazione non sempre riesce, la si può capire e condividere, questa sua scalata all'emancipazione e all'indipendenza anche economica, con la mente di una donna del 2010 con genitori che hanno fatto il '68, se la si cala ai primi del '900 risulta quantomeno difficile.
Ed è qui che il libro non funziona troppo, una precisione storica quasi pedantesca per gli avvenimenti dell'Italia e del mondo di quegli anni, si accompagna ad una sublimazione eccessiva di una donna che, da sola, ha scavalcato tutte le tappe del suo essere donna ed emancipata in una Sicilia pre e post bellica ma, ciò non ne inficia la piacevolezza e linteresse del libro.
Notazione a parte meritano stile e lingua, eterogenei entrambi, con registri stilistici che si sovrappongono dal dialetto all'italiano regionale fino ad uno stile alto e aulico a seconda dei personaggi e dei loro interlocutori, lo stesso piano cronologico della vicenda seppur seguito, si perde a volte nelle dissertazioni con personaggi di un passato ancora anteriore con i quali Modesta intesse un dialogo post mortem.
Una grande opera comunque, uscita in Italia postuma, che da la misura di quanto il nostro paese non sia ancora totalmente pronto per una libertà manifesta e gridata

Goliarda Sapienza
L'arte della gioia
Einaudi SuperET, 2009

mercoledì 17 marzo 2010

Anche se non ho le ali

16 Marzo 2010 Teatro Smeraldo, Milano
Gli Afterhours a teatro, una bestemmia se penso ai miei anni del liceo quando il mio compagno mi scrisse tutta 1.9.9.6. sulla smemo (a proposito di bestemmie, forse era per il gusto di vederla scritta?) ma sono storie altre e poi io sono cresciuta e loro più di me, adesso il teatro sì, ci sta.
Le luci si abbassano puntualissime e il sipario si alza allo Smeraldo, Manuel Agnelli completo nero e capello lungo, caldo di piastra, si presenta da solo sul palco senza strumenti e con un foglio, tratto dal suo "meraviglioso tubetto" che è poi diventato il testo di anche se non ho le ali non vuol dire che non t'ami.
Accompagnato da (udite, udite!) nientepopòdimenoche Xabier Iriondo in tutto il suo splendore e varia strumentazione (la mia vicina chiederà alla sua amica "ah sì? e chi è questo iriondo?" mah!)
Partono bene, sì, e continuano meglio con l'ingresso del resto della band accompagnata un quartetto d'archi, ritmo incalzante e frenetico per una tarantella all'inazione dall'inizio claustrofobico e un cuore di macchina, D'Erasmo suona il tamburello, dello stridore del violino si occupa la mini-orchestra degli Gnu Quartet alle sue spalle.
Direttamente dal mio primo anno fuori casa di mamma e papà viene riesumata tutto fa un po' male mi accorgerò che sarà la serata dei revival e mi preoccupo per il collo di Dell'Era che pare esplodere in quei controcori, come al solito in tenuta da Benicio del Toro di Via Ripamonti tratto distintivo assieme al balletto sixty col basso (che peròperò quando lo suona si fa perdonare tutto).
Così cala un telo bianco funzionale alla proiezione di volte di fumo che tanto mi ricordano l'onirismo lynchiano di Eraserhead, gli Afterhours stasera tenteranno di darsi un taglio "intellettuale" e lo faranno ma con risultati alterni.
Un lunghissimo intermezzo musicale sulle note di musicista contabile, questa sì che è una sorpresa, sto quasi a bocca aperta mentre durante il cantato in un gioco d'ombre i musicisti vengono proiettati ora l'uno ora l'altro a ingigantirsi contro quello schermo, le lanterne magiche di un'infanzia di altre ere, potremmo supporre, e come infante sta il pubblico piuttosto ammutolito e composto.
Avevo dei ricordi ben più movimentati dei concerti degli afterhours, i primi si perdono in una fine d'adolescenza ma anche quelli molto più recenti non paiono contraddire la mia antica impressione, però sì, sono stupita, mi piace l'atmosfera.
Mi risveglia posso avere il tuo deserto con tutta la forza di un brano che pare appena uscito talmente suona nuovo live con un nuovo vestito e per la rarità con cui è proposto, Bello.
E poi lo schianto con simbiosi e sì, è ritornato Iriondo a smanettare con i sinth ed elettronica variopinta, ed è tutto così sommesso prima e poi diventa quella cosa che conosciamo, quelle parole disperse nel vociare, il pubblico ammutolisce, qualcuno canta ma sottovoce, per non disturbare qualcosa che da tempo mancava e D'Erasmo guida quel quartetto d'archi e flauto, così, perché non si smarriscano nella simbiosi anche loro.
Succede dopo una cosa stranastrana e anche un po' bruttarella, arriva Claudia Pandolfi (sìsì l'attrice) a buttare via i Versi del Testamento la poesia di Trasumanar e Organizzar di Pasolini.
Ed è enfatica, troppo poco partecipe forse, quello che passa è una leggerezza della solitudine che non c'è nell'originale, la band ha la pietà di accompagnarla, chissà che ci distraiamo un po'.
Poco tempo e l'applauso va a Pasolini più che a lei, anche se davvero, non so se in questo contesto fosse appropriato, non letto così ma il "bello" deve ancora venire.
Esce leggendo l'articolo sul Vilipendio (mi pare che il titolo sia proprio questo) di Manganelli, parte il disastro, in tutti i sensi, tempi sbagliati, ironia dove non c'è e piattume dove c'è ironia, il pubblico se ne accorge, qualcuno urla qualcosa, lei si impappina, prosegue a stento, non vediamo che finisca quest'agonia, l'applauso è liberatorio.
Ci aveva anche provato Iriondo con le sue macchinine elettroniche a risollevarne le sorti, un momento talmente basso che manco all'oratorio quando si volevano recitare le tragedie greche.
E allora spalanchiamole le tende proiettate di senza finestra, facciamo finta non sia stato detto nulla e continiuamo con la serata che è ancora lunga e con una dolcissima Icebox in diretta dall'oltreafter, un tempo così lontano che non ho mai conosciuto vivo e rispunta a distanza di vent'anni.
Qui cambiano le carte in tavola, la versione è acustica con Dell'Era alla chitarra, acustica appunto, Agnelli solo voce, Ciccarelli è l'unico stabile alla chitarra elettrica, D'Erasmo alla chitarra e Prette sta seduto a terra e pizzica una cosa che mi pare il basso di Dell'Era ma potrebbe essere una chitarra, sono troppo distante.
E tutto diventa di una dolcezza inaudita per i ruvidi after e anche noi turn to ice mentre si compie.
E rientra Iriondo per aiutarli a tornare ancora più indietro talmente lontano da essere inafferrabili fino a spiegare how we divide our souls anche se sembriamo abbastanza compatti; con Iriondo alla chitarra elettrica hanno liberato Prette che fremeva, alleluja.
E poi è il momento di 1.9.9.6. eccola lì, direttamente dalla mia smemoranda (del 1999/2000 però) un infrangersi di architetti sopra la città con la stessa vemenza di allora, mi appassiono e canto un po', lo fanno tutti adesso, meno male.
Manuel, con tutti i musicisti sul palco e lui al piano dirige un tappeto sonoro sul quale legge un brano di Flaiano: "Le Iene" 'azz, bravo l'Agnelli, gli avrà insegnato un qualche maestro di recitazione, non deve essere lo stesso della Pandolfi però, meno male.
Chiamata e annunciata arriva la ballata per la mia piccola iena a suonare quasi come una hit in quel contesto confidenziale, non so, è bellissima come sempre ma inaspettata nonostante, probabilmente, prima di entrare avrei giurato che l'avrebbero fatta.
Così tutto diventa blu, tutto diventa mare e parte oceano di gomma soffusa, mi pare, guardo Prette che adesso indossa un bustino nero, me lo ricordavo più virile, infatti è la solita Pandolfi che con una notevole apertura alare batte sulla batteria sotto il diretto controllo alternato di D'Erasmo e Dell'Era.
Come batterista è meglio e ho detto tutto.
La canzone è comunque la meraviglia di sempre.
Un nuovo cambio di prospettiva ed è solo febbre forte e intensa, D'Erasmo e gli Gnu danno il meglio di loro stessi e non si rimpiange il violino psichedelico di Ciffo.
E' rimasto solo con gli Gnu, adesso, Manuel e si siede al piano per una pelle struggente (ad emozione antica, vetusto aggettivo), bella anche così, non oserei un più bella ma per alcuni istanti l'ho pensato.
Si viaggia ancora e si approda a Varanasi baby con una scenografia molto indiana e una coda interminabile, potente, è la chiave della serata l'alternanza del piano e del forte (ogni riferimento a strumenti musicali reali o presunti è puramente casuale).
Si chiude questa prima tranche con ritorno a casa , e dunque, altro monologo Agnelliano,questo pezzo lo salto sempre quando sono fuori casa, mi fa venire i lucciconi ma stasera non trovavo il tasto "avanti" e così i lucciconi me li sono dovuta tenere.
La pausa dura poco, una decina di minuti, subito riappare Manuel in una scenografia molto mutata ai piedi di una specie di scivolo con la chitarra e alle sue spalle gli Gnu a cantare il paese è reale, a metà si ferma, da una tenda bucherellata appare Antonio Rezza, ospite annunciato e graditissimo, finisce lo scatch e rinizia la canzone.
Gli afterhours non suoneranno più da questo momento, se si eccettua qualche accompagnamento fatto al comico laziale, ma si esibiranno nella veste inedita di attori, una bella sorpresa.
Rezza è divertente e diverte, la sua comicità sopra le righe, intelligente, strafottente, lucida conquista lo Smeraldo.
Si esibisce dapprima in una "rivincita" delle sorellastre di Cenerentola, poi in un "training" per Giovanna D'Arco, poi è la volta di un malefico nanetto vestito di azzurro che sa fare tutto e ne combina di più (o.r.a.f.c.p.e.p.c.) alla fine da un ospedale si passa ad una corsa tra suore e laici.
Poi conclude con una "pietà" livornese con tutti gli after in scena.
Sì, lo so, detto così non fa ridere.
Escono tutti a salutare e gli applausi non languono e continuano anche dopo la chiusura del sipario ne vogliamo ancora, com'è ovvio che sia ma manuel fa cenno all'orologio, è tardi, si deve chiudere.
Rimane la sensazione di aver visto degli afterhours veramente inediti, rimane la sensazione di un bello spettacolo seppure, in alcuni momenti, un tanto al chilo, rimane la sensazione che gli after funzionino, anche a teatro.

martedì 16 marzo 2010

A volte, un pianoforte in mezzo a una piazza ha più senso che altro. (Milano)

Bianco abbagliante quando c'è il sole ché si può distinguere anche il marmo rosa e grigio di quella cattedrale gotica che chiamano Duomo per comodità.
La giapponese. Immobile con espressione cattiva come se con la foto il consorte (deve esserlo per forza: stesso viaggio, stesso destino)potesse portare via tutto il sole, che si sa, a Milano è raro.
Non si passa in piazza Duomo in mezzo alla folla, fa troppo turista anche se un piano suona Einaudi, non da solo, s'intende.
Il pianista ha un cappello e credo sia questa la novità.
La folla è brughiera ma non è tempo di romanticismo decadente a Milano, oggi l'andare è quello del sole timido, dello struscio, delle macchine fotografiche e dei marsupi, il tempo è quello dei turisti in fila per due e delle foto alla madonnina.
Una tristezza che quasi si piange anche se c'è il sole, oggi, a Milano, e col sole non si deve piangere perché tutto è chiaro, perché il vento ha fatto diventare il cielo azzurro e si distinguono così, le lacrime anziche mischiarsi nel cliché della pioggia.
Non ci sono neanche alberi ai quali appendere l'anima stufa come la pancia di Sant'Andrea, non si può liberarsene nemmeno un po' e di alberi, nella brughiera, non se ne vedono poi così spesso.
Il pianista ha cambiato pezzo e in due l'hanno anche applaudito.
Poi c'è radioitaliasolomusicaitaliana col suo jingle fastidioso, viene dall'africano a fianco a me o dalla sua radiolina, non gli piace Einaudi evidentemente e gli preferisce qualcun altro perché il sole non si è portato via i piccioni nè i bambini, ma i bambini a Milano non rincorrono i piccioni, li confondono con la piazza.
Il tempo è un signore distratto, oggi, a Milano e non prende l'aperitivo in galleria, il tempo è fermo accanto al pianista e ha una felpa bianca col cappuccio.
Mi guarda scrivere contento di passare osservato prima che anche io passi, ma alla prosa.
Milano non è questa, Milano non sta qui.
Questa è solo la neve, sul Duomo una volta che si gira la palla di vetro.

martedì 9 marzo 2010

Però, poi, dopo ci sono le leggende del non amore. Come svegliarsi non si sa in che letto, così, all'improvviso. Però, poi, dopo ci sono le leggende della non esistenza. Come svegliarsi sempre nello stesso letto, così, all'improvviso.

Questa non è una storia perché non inizia e tantomeno finisce, questo è un sorriso perfetto nella perfezione dei tratti di marmo ed è facile capire perché le statue non piangono mai.
C'era una volta un principe che abitava in un castello di cristallo e c'era una volta un re che i castelli di cristallo li costruiva e poi li demoliva come un sisifo di Murano.
Una cosa avevano in comune il principe e il re:
un castello di cristallo per berci il vino bianco nelle notti di luna calante.
Ma non lo sapevano.
Il principe tentava di ripitturare le pareti del castello di cristallo a sua immagine e somiglianza e senza chiedersi chi l'avesse costruito e perché l'avesse fatto così fragile, il re, invece, pensava ad un modo veloce per demolirlo quel castello, con meno cocci possibile perché, per lui, senso non aveva più.
Il fatto è che il principe si arroccava sempre più nei meandri di cristallo pensando che potessero dargli una protezione dal mondo che non voleva vedere né conoscere, non perché amante dell'ignoranza, tutt'altro, ma per proteggersi dalle paure che pensava di tenerci fuori.
Forse perciò aveva colorato i muri colore della pietra viva, grigio e nero li colorò, per sentirne l'odore di muffa d'inverno e la frescura d'estate.
Il re dentro i castelli non entrava mai.
Li costruiva per puro spirito estetico e per puro spirito estetico li demoliva non appena arrivava la bella stagione: "estatico d'estate" diceva di essere.
Ma non era ancora tempo.
Molte ere accavallarono le gambe e il principe si dimenticò che il suo castello fosse di cristallo, il re si dimentico che l'aveva costruito e perché.
Entrambi si beavano della loro amnesia e non si curavano del castello che diventava sempre più fragile.
Perché una cosa è necessario che si sappia.
I castelli di cristallo hanno anime di diamante che respirano e lo sanno quando se li dimenticano e anche quando credono che siano qualcos'altro.
La prerogativa dei castelli di cristallo è quella di essere estremamente lucidi e di riuscire a guardarsi attraverso.
E guardare fuori e vedere i re che vivono la loro vita al sole a caccia di tutto ciò che si possa rincorrere, perché i re rincorrono, per antonomasia e non solo per lei.
E guardare dentro, guardarsi dentro e vedere principi che vivono le loro vite pseudoperfette senza sapere che cosa ci sia fuori dal castello per ascoltarli pensare che l'ululato che sentono nelle notti di luna calante sia un sibilo del vento oppure la mancanza di vino.
Non è dato sapere se il castello sia stato buttato giù con un acuto, oppure, semplicemente stia ancora lì a sgretolarsi piano, notte dopo notte, nonostante sia stato ripitturato di viva pietra.
Questa, infatti, è una storia ma non inizia e tantomeno finisce, questo è un sorriso perfetto nella perfezione dei tratti di marmo, però io una volta una statua piangere l'ho vista.
Faceva lo stesso ululato di un castello di cristallo in una notte di luna calante.

martedì 23 febbraio 2010

che l'essere soddisfatti di sé significa essere vili e ignoranti

Non sempre i libri si scelgono, spesso e volentieri sono loro a scegliere te, mancherebbe solo che iniziassero a leggerti ma questo è un altro trip.
Flatlandia, ecco, mi ha scelta in questo momento.
Il problema di quando un libro arriva per tante vie a voler essere letto (tipo la ricorrenza ossessiva di uno stesso numero) deve tener conto che crea moltissime aspettative in chi si appresta a fare la sua conoscenza.
Proprio per questo non posso gridare al capolavoro leggendo il libro di Abbott, ma, degli applausi se li merita tutti & tutti.
"La terra è piatta", il mondo è bidimensionale, ridete pure sì, poi provate ad immaginare una quarta dimensione.
Difficile, senz'altro.
E allora ce lo si spiega con il sapere rivelato empiricamente da un dio sfera che non ammette altra verità al di fuori del tridimensionale per paura che ci sia qualcuno che si estende oltre lui?
O con un dio punto che si bea di sé stesso come solo gli stolti e i puntiformi,ovvero ciò che compie solo una rotazione su sé stesso, può fare?
Oppure, semplicemente, si risolve con un umorismo feroce, una critica costante agli esseri tridimensionali (voi quante dimensioni avete?) che viene da quel mondo piatto ed esteso.
Un vero tratterello di geometria mascherato da libro di teologia (o viceversa?)

Io, che di matematica non ne capisco nulla me ne sto qui ad ammirare un linguaggio simbolico, me ne sto qui ad ammirare la genialità della metafora.
Sto qui a cercare di dedurre una quarta dimensione.
(O anche una quinta, una sesta, una settima?)
fino a rendermi conto che il mio saccente universo è solo un foglio scarabocchiato su una scrivania.

Flatlandia
Racconto fantastico a più dimensioni
Di Edwin A. Abbott, Masolino d'Amico (Traduttore), Masolino d'Amico (Prefazione), Giorgio Manganelli (Postfazione)
Adelphi, 1993

Orizzonti perduti (Venezia)

Se perdete un oggetto, un qualsiasi oggetto, state pur certi che si è smarrito a Venezia.
Impossibile tenere da conto le obiezioni di chi borbotta che in laguna non ci ha messo mai piede e che gli pare difficile che il suo portachiavi d'osso si trovi tra le calli, quelli che il leone l'hanno solo visto proiettato su uno schermo, seppur piatto.
E' evidente che non hanno mai perso un elmo di bronzo, o le corde di un pianoforte, le cose normali, che si trovano a Venezia.
Ci deve essere la nebbia, però e deve essere il mattino più uggioso di tutta la via lattea, perché possiate trovare qualcosa che di certo non avete perso voi.
Mai cercare lì quello che non trovate più, non lo rinverreste mai; a Venezia si trovano solo le cose smarrite da altri.
Una giapponese, una volta, ha trovato a Rialto l'orecchio di Van Gogh mentre cercava degli occhiali da sole e un americano grasso il senno di Quijote nel tentativo di legarsi una scarpa.
A un giovane prete finirono in mano le ali di Lucifero sul canale della Giudecca mentre era perso a scrutare chissà che cosa, il più fortunato di tutti nell'antro più scuro di una gondola ha ritrovato la memoria del XX secolo.
Pensare che aveva solo perso una moneta.
Il rinvenimento è opera di mani forestiere, non può avvenire da parte di un indigeno, se no tutte le mattine di uggia, ogni volta che si aprono i libri, si troverebbero segni persi da altri e sarebbe un fatto piuttosto scomodo.
Per quel che ci riguarda io cercavo il filo di un discorso, non perso da me s'intende, mi sarebbe stato impossibile altrimenti.
Era un filo lungo, un discorso complesso, di quelli che forse non puoi neanche dipanare se non ne tieni stretto stretto un capo, di quelli che, forse, ti s'ingarbugliano in modo tale che ti legano così strette le falangi da dover essere troncati per non essere di danno.
Era un discorso metafisico e metà no, non credo fosse di circostanza, forse la perdita di quel filo era stata un po' accidentale un po' voluta fatto sta che, non trovandosi il filo, occorreva procedere alla sua ricerca spasmodica.
E mentre l'acqua si alzava su tutti i canali, a reti unificate insomma, io cercavo il filo dietro le maschere cinesi dipinte a mano in loco per i turisti, lo cercavo nelle suole degli stivali di plastica facendo alzare i piedi a tutti i visitatori di San Marco in bilico sulle passerelle.
L'ho cercato tra le cartoline stese a bagnarsi alla pioggia, tra le pietre del selciato dei sotoporteghi, ho chiesto alle passanti se mai avessero visto il filo di un discorso perduto.
Solo allora, con l'acqua alta, persi qualcosa anche io, persi le Speranze di ritrovarlo, i canali invadevano la strada, doveva essere affogato il filo di quel discorso.
E le Speranze, si sa, giacché sono le ultime a morire, quando si perdono a Venezia, vanno a vivere sulla luna ma questa è un'altra storia e quando andrò lassù ve la racconterò.
Non mi è restato che tornare indietro, sfilata.

Ma qualcosa, a Venezia, nelle giornate più uggiose di tutta la via lattea lo si deve trovare per forza.
A me è stato concesso di trovare ventitre rose in fondo alle tasche di un cappotto caro, sono rose assai utili, per quando si perde il lume della ragione, basta fare click e non c'è bisogno di arrivare fino a Venezia per ritrovarlo.

mercoledì 17 febbraio 2010

Tutto ritorna per me ad avere un senso o almeno si spera.

Una manciata di anni e un ombrello arcobaleno, un mandarino sopra la testa ma ogni spicchio di un diverso colore.
Guardare la pioggia da là sotto ha sempre un senso e non importa se il colore dei para-acqua è tale solo perché erano ancora gli anni '80.
Nel 1988, al tramonto, non pioveva mai.
Invece adesso di tramonti ne piovono via tanti e tanti ne sono piovuti già via, forse perché l'ombrellino è troppo piccolo e non ripara più dall'incipit della tenebra.
E chissà dov'è finito poi, quale vento l'ha spezzato, in quale cantone è conservato.
Curioso come certi oggetti escano dalle vite e si ripropongano in altra forma.
Puoi sostituirlo quell'ombrellino arcobaleno, con un carillon, uno di quelli che stanno in una scatolina e che ti vengono donati quando meno te lo aspetti.
Uno di quelli che li apri e ci ritrovi dentro la ballerina con la gamba rotta, ma non quella piegata, che, tutto sommato non serve poi a tanto, proprio quella che regge, quella tesa tra la base e il tutù, rimane solo attaccata per un pezzettino di fil di ferro tra due monconi, la danzatrice calMa,
Continua al suo calare, nel crepuscolo ma a girare e a riempire mentre che il cielo si oscura.
E non basta una volta, ed è fatta così, dopo che si apre la scatola magica e sale, sale, sale dal carillon ma non l'acchiappi, no, non l'acchiappi neanche se allunghi le braccia in alto e un po' t'illudi ma dietro sale ancora, troppo lontana.
e d’incanto l’identico istinto ci coglie
e con me ti fai trascinare via

E poi si sdoppia, e si quadruplica e prende tutto lo spazio, si nasconde negli angoli, con il vento, poi finiscono gli ululati, del vento e calano per sovrapporsi, e ritornare al buio di una scatolina, la sera.
In fondo ai carillon regalati c'è un piccolo parapioggia d'arcobaleno, nascosto, perché è troppo timido per essere trovato ( lo sa che è del colore del 1988) si lascia solo vedere, quando ormai LO credevo disperso, faccia al tramonto quasi finito
mentre un raggio di luna rifrange
sulla pioggia che piange
.

sabato 13 febbraio 2010

Questioni di principio

Come iniziare.
L'inizio, il principio l'archè non è naturale, è sempre frutto di un trauma; un processo, un qualsiasi processo per poter divenire liberamente ha la necessità di accadere.
E come accadere se il demiurgo si ritrova nel mare magnum che aveva sempre aborrito (per la paura d'annegare mascherata da snobismo) della moltitudine di pagine di qualità più o meno alta che sono i blog?
Lo scopriremo solo scrivendo e ancora si necessita di un inizio.
Poi c'era una volta la Necessità.
Ovvio, non c'è la Necessità, in un big bang ci sono solo i principi primi e le cause accidenti e accidentalmente la decisione di tuffarsi è un inizio; un tuffo senza necessita, s'intende.
Si rischia però, necessariamente, di arrotolare lo spaghetto chiamato Necessità per ore ed ore in una forchetta fatta di luoghi comuni prima di poterla assaggiare e di dire che è un po' scotta.
Quindi, arrivando alla conclusione che l'atto di pubblica scrittura non è affatto necessario, superfluo è anche chiedersi perché non lo sia.
Accade e basta, come nel più canonico degli incidenti, non c'è intenzionalità nell'avvenimento, gli dei sonnecchiano da un po'.
Eppure non è proprio così, neanche la questione divina può essere archiviata, per principio.
E la questione di principio è sempre il Verbo, da V a V, (Vangeli e Veda, chiariamo)la Parola che è intenzionale perché modellabile, flessibile, utilizzabile.
Il problema sta nell'inizio e nella fine di questa intenzionalità, forse occorrerebbe un'opera di canalizzazione, ma questa dovrebbe essere svolta in funzione di qualcosa, un Manifesto Intellettuale fungerebbe all'abbisogna.
Essendo però, lo spirito di questo demiurgo un tantinello anarchico e, ahimè, non avendo proprio nulla da manifestare se non lo sconcerto di questi tristi tempi bui, come farebbe (e meglio!) qualsiasi pensionato che gioca a carte nella bettola sotto casa, ci si limiterà a manifestare i limiti dell'homo scribens .
Ma per questo non servono manifesti, basta solo leggersi attorno.
Poi c'è chi attorno non ci si legge e allora che almeno ci si legga indietro chissà che a qualcosa si arrivi, non foss'altro che la nostalgia di un'epoca bene-scrivente.
E come in ogni creazione che si rispetti, come in ogni big bang, c'è un gran casino e molto fumo, nebulose su nebulose, come nebuloso è qui adesso.
L'importante è l'arché mi pare
il resto sono solo questioni di principio.

giovedì 4 febbraio 2010

E lui si chinò al mio orecchio, mi parlò nell'orecchio. E io ascoltai le parole sue al mio orecchio, ridendo "ah! ah!" e parlai nell'orecchio a lui, e fummo due che si parlavano all'orecchio.

-Vuoi tu AthenaBlu prendere questo libro e tenerlo a mente?
-Sì, lo voglio.

"Una lettura un po' noiosa", mi avevano detto le malelingue, ma le malelingue, si sa, parlano male e, a volte, leggono peggio.
Poche parole su questo libro e una dichiarazione d'amore, alla lingua prima di tutto, alla ripetitiva, ossessiva, in una composizione che torna e ritorna, peggio di un anello, una spirale che affonda nella terra di Sicilia o di "altrove" e arriva ad innalzarsi, di ripetizione in ripetizione, fino al cielo degli aquiloni dell'aulismo.
E poi, seconda dichiarazione d'amore all'atmosfera onirica, pesante, più da ricordo nel sogno che da ritorno vero e proprio, dove l'umano, tutte le forme dell'umano, soprattutto le più misere, spiccano e splendono in un bianco&nero lungi dall'essere piatto ma denso di sfumature, come, chessò, Bergman, per dirne uno.
Un viaggio metafisico alla ricerca dell'Essere, inteso come sé che dalle radici non può prescindere, ma non è una ricerca ossessiva quella di Vittorini/Silvestro, né pedante.
E a questo punto sì, gli crediamo, quando dice che la sua Sicilia, seppur così precisa nella toponomastica, si scioglie in un luogo qualsiasi nel mondo.
Ma il centro è l'Uomo, nei suoi tipi, nella miserie, non è una ricerca psicologica in senso stretto la sua, le figure sono ombre, fantasmi, sbozzate in un gigantismo epico o rattrappite alla bidimensionalità della loro pochezza.
Anche loro, gli interlocutori, sono ossessivi, ognuno portatore di un messaggio che la censura voleva velato, ognuno col suo modo di vedere le cose del mondo e della vita, intavolano dialoghi grazie ai quali Silvestro cresce, ha il tempo di farlo. Sempre volatili nel modo (quasi a sfiorare il nonsense) ma ancorati ad una roccia di leitmotive che ne segnano le coordinate icastiche ma non macchiettistiche.
E poi, vabbè, metteteci anche le illustrazione di Guttuso, così, come contorno alle "aringhe e alle chiocciole da succhiare".

Conversazione in Sicilia
Di Elio Vittorini
BUR Biblioteca Univ. Rizzoli, 2006

domenica 31 gennaio 2010

Un paese ci vuole, non fosse altro che per il gusto di andarsene via

E poi, allora, la vita è un nostòs.
Per dire di questo libro mi rifarò ai Simboli come l'autore, poiché esiste ciò che è tanto e ciò che è troppo e Pavese è la somma di questi due, io sono piccolina e il mondo no, non riesco ad abbracciarlo tutto.
Per cui niente dirò di quello che potete trovare nelle migliori antologie: del tessuto lessicale che si rifà ad un parlato regionale ma senza fargli il verso né essere mimetico, non scriverò nulla della lirica altissima di alcune parti, né tantomeno parlerò della prosa piana e tranquilla ma cesellata finemente.
Dirò solo del dolore del ritorno in una realtà che non è idillica e che mai lo è stata, una passeggiata tra morti indimeticati presi per mano da un suonatore Jones che ha scelto di non suonare tutta la vita, di appenderli al chiodo, gli strumenti, di non arrivare suonando alla sua Spoon River.
C'è che uno, magari, questo libro lo legge quando è ragazzino e lo trova bello ma non se n'è mai andato dalle sue personali Langhe, c'è poi che, magari, uno questo libro per varie vicissitudini, proprio la stessa persona, proprio per vari motivi, lo va a rileggere da adulto, mettiamo, non so, tipo dopo una decina d'anni e al di là del mare.
E allora sì che il Simbolo ha senso, tutto diventa un Simbolo, un ritorno, un pensiero a.
Il romanzo stesso diventa dunque Simbolo per esso stesso, come la collina della Gaminella, trascendendo al metasimbolico quando dalle proprie, personali, Langhe ci si allontana per finire in un posto dove si sente la voce dell'autore in pancia nell'impossibilità di dire: "Per male che vada mi conoscete, per male che vada lasciatemi vivere" proprio come se improvvisamente si fosse ventriloqui, così, per nostalgia.
E il ritorno, ah, il nostòs....
Possibilità remota ed agognata ma solo per vedere in che melma si affondano le radici, ché sono l'ultima cosa che si guarda di un albero, normalmente si alza la testa laddove gli uccelli fanno il nido e più si cresce e più e a distanza dalla terra.
Però ogni tanto dal ramo più alto uno vorrebbe tornarci in quel fango, misero, sporco, sempre uguale a sé stesso nel suo mutare incessante di personaggi per vedere da dov'è che attinge per capire dove sta andando.
Ci trova solo odore di scorrere di stagioni sempre nello stesso ordine, mai una volta che ad un autunno succeda una primavera, ci trova quello che aveva lasciato ma sempre con qualcuno in meno e morto sempre in un modo peggiore di quello di prima, ci trova sempre la stessa luna (e, così, en passant, ci si ricorda pure di quanto tempo non la si guarda in faccia) e sempre gli stessi falò.
Il falò del fuoco, il purificatore, quello che brucia tutto, anche la miseria, anche i muri e le "cagnette del boia", perché il fuoco fa bene alla terra ed è il suo cibo, perché il fuoco alla notte di San Giovanni lo conosce anche chi ha letto questo libro, ragazzino, dieci anni fa, mentre le guerre partigiane no, allora non c'era e può solo riferire di letture remote.
E allora rimane solo una cosa poi, il Mito, quello di un Ulisse stanco che appena tornato alla petrosa Itaca la trova identica e, forse peggiorata, come la rimetta a posto, se facendo strage di proci oppure mettendo a bottega un orfanello poco importa.
Ciò che conta è che "seguir virtute e conoscenza" porta al di là delle Colonne d'Ercole, o in viale Corsica a Genova e da lì forse imbarcarsi, oppure semplicemente, al di là del mare, dove ci si guarda alla stessa luna ma ci si incendia ad altri falò.

La luna e i falò
Di Cesare Pavese, Gian Luigi Beccaria (Prefazione)
Einaudi - Super ET, 2005

domenica 3 gennaio 2010

E la società, dopotutto, era semplicemente una cattiva abitudine

Immaginate di rimanere soli sulla terra, risalendo dal cuore ad imbuto del pianeta dove avreste voluto incubarvi, essere l'unico umano emerso in un mondo di evaporati.
Allora voi, cosa fareste?
Semplice, pensereste che il mondo è in vacanza, altrove che siete vittima di uno scherzo di qualche entità mai nominata e, in fondo, mai neanche contemplata.
Così voi, il meno allineato di tutti, il meno socievole, misantropo e solipsista diverreste l'umanità e, parlando di voi a voi, parlereste del genere umano al genere umano: "quel <> non suppone niente e nessuno. Rivolto a me è un pleonasmofunzionale. Mi tiene compagnia".
Il romanzo della solitudine totale e annichilente, dapprima agognata poi vissuta quasi come una punizione, il monadismo costretto.
E il genio di Morselli sta qui, nell'impossibilità. L'impossibilità della lamentazione à la monologo interiore novecentesco.
Il protagonista è solo, talmente tanto che è incapace e disinteressato ad un analisi personale di tipo approfondito, talmento tanto da non avere neanche un nome, tanto nessuno lo chiamerebbe.
C'è anche una natura ritrovata ma non si perde in un arcadismo di maniera, ciò che è tecnologia è necessario per mantenere un contatto, perlomeno simbolico, con ciò che fu umano.
Si vaga dunque tra la filosofia e la psicologia, tra la sociologia e la letteratura in uno scorrere di citazioni ricercate, gemme di erudizioni alessandrine a partire dal titolo.
La lingua poi, così ricca e complessa, mai banale, mai scontata nelle sue immagine si arpiona ai visceri.
Una lingua capace di dare piacere e dolore, la lingua della vertigine dell'abisso, dove l'Umano è, irrimediabilmente, solo.

Dissipatio H.G.
Di Guido Morselli
Adelphi, 1985