martedì 23 febbraio 2010

Orizzonti perduti (Venezia)

Se perdete un oggetto, un qualsiasi oggetto, state pur certi che si è smarrito a Venezia.
Impossibile tenere da conto le obiezioni di chi borbotta che in laguna non ci ha messo mai piede e che gli pare difficile che il suo portachiavi d'osso si trovi tra le calli, quelli che il leone l'hanno solo visto proiettato su uno schermo, seppur piatto.
E' evidente che non hanno mai perso un elmo di bronzo, o le corde di un pianoforte, le cose normali, che si trovano a Venezia.
Ci deve essere la nebbia, però e deve essere il mattino più uggioso di tutta la via lattea, perché possiate trovare qualcosa che di certo non avete perso voi.
Mai cercare lì quello che non trovate più, non lo rinverreste mai; a Venezia si trovano solo le cose smarrite da altri.
Una giapponese, una volta, ha trovato a Rialto l'orecchio di Van Gogh mentre cercava degli occhiali da sole e un americano grasso il senno di Quijote nel tentativo di legarsi una scarpa.
A un giovane prete finirono in mano le ali di Lucifero sul canale della Giudecca mentre era perso a scrutare chissà che cosa, il più fortunato di tutti nell'antro più scuro di una gondola ha ritrovato la memoria del XX secolo.
Pensare che aveva solo perso una moneta.
Il rinvenimento è opera di mani forestiere, non può avvenire da parte di un indigeno, se no tutte le mattine di uggia, ogni volta che si aprono i libri, si troverebbero segni persi da altri e sarebbe un fatto piuttosto scomodo.
Per quel che ci riguarda io cercavo il filo di un discorso, non perso da me s'intende, mi sarebbe stato impossibile altrimenti.
Era un filo lungo, un discorso complesso, di quelli che forse non puoi neanche dipanare se non ne tieni stretto stretto un capo, di quelli che, forse, ti s'ingarbugliano in modo tale che ti legano così strette le falangi da dover essere troncati per non essere di danno.
Era un discorso metafisico e metà no, non credo fosse di circostanza, forse la perdita di quel filo era stata un po' accidentale un po' voluta fatto sta che, non trovandosi il filo, occorreva procedere alla sua ricerca spasmodica.
E mentre l'acqua si alzava su tutti i canali, a reti unificate insomma, io cercavo il filo dietro le maschere cinesi dipinte a mano in loco per i turisti, lo cercavo nelle suole degli stivali di plastica facendo alzare i piedi a tutti i visitatori di San Marco in bilico sulle passerelle.
L'ho cercato tra le cartoline stese a bagnarsi alla pioggia, tra le pietre del selciato dei sotoporteghi, ho chiesto alle passanti se mai avessero visto il filo di un discorso perduto.
Solo allora, con l'acqua alta, persi qualcosa anche io, persi le Speranze di ritrovarlo, i canali invadevano la strada, doveva essere affogato il filo di quel discorso.
E le Speranze, si sa, giacché sono le ultime a morire, quando si perdono a Venezia, vanno a vivere sulla luna ma questa è un'altra storia e quando andrò lassù ve la racconterò.
Non mi è restato che tornare indietro, sfilata.

Ma qualcosa, a Venezia, nelle giornate più uggiose di tutta la via lattea lo si deve trovare per forza.
A me è stato concesso di trovare ventitre rose in fondo alle tasche di un cappotto caro, sono rose assai utili, per quando si perde il lume della ragione, basta fare click e non c'è bisogno di arrivare fino a Venezia per ritrovarlo.

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