(Una di Due)
“Io volevo esser sola in un modo del tutto fuori dagli schemi, nuova. Esattamente all’opposto di quello che pensate voi: cioè senza me e appunto con un estraneo attorno.
Questa la chiamate pazzia?”
Forse perché non riflettono bene, mia cara, in fondo cosa ne può sapere il mondo della sventura di essere solo una delle immagini del sé?
Una delle Tante e Nessuna delle Centomila.
Storia vecchia cara mia, puzza di stantio il tempo in cui mi evocasti, tirandomi fuori da una gruccia dell’armadio, me, la tua estranea per riuscire finalmente a sentirti un po’ più sola.
“La solitudine non è mai con me”, dicevi, “è sempre senza di me”, però non è mai sola ci vuole sempre un estraneo che la abiti, sia pure un soriano che eviti accuratamente di strusciarsi sui tuoi polpacci, così mi hai inventata per tenerti compagnia, ignorandoti. Hai fatto in modo che la tua casa diventasse la mia, che tu fossi un ospite sconosciuto nell’ombra, il ragno inconsapevole lassù, nell’angolo di destra, a tessere una tela di incoscienza di te.
Però, una volta, abbiamo provato a conversare, faccia a faccia, ci assomigliamo noi due, qualcuno direbbe che siamo due gocce d’acqua, ad altri parremmo solo simili, parenti lontane, forse, sarà per quell’appendice nasale che vira tutta a dritta.
Mi chiedevi chi eri tu, volevi vederti, e quanto orrore provammo entrambe nello scoprire che non lo sapevamo, che non saremmo riuscite a scoprirlo guardandoci, perché io, se ti grattavi la testa col braccio destro, me la grattavo col braccio sinistro e quest’asimmetria era sconcertante.
Non eri tu quella da questa parte, come quella dalla tua parte non ero io, e nessuna delle due aveva la forza di arrivare fino all’armadio per portare giù l’Ulteriore, lo sapevamo entrambe, sarebbe stata una terza e uno sguardo in più che ci avrebbe ignorate.
E di uscire no, di uscire non se ne parlava, ti saresti raddoppiata ancora, infinite volte, centomila volte, ti saresti frantumata come un prisma nello sguardo di Chiunque, saresti diventata un chiliagono, saremmo state troppe, allora, qua dentro.
Perché già i nostri occhi bastavano a farci tremare il labbro, perché già provavamo pudore a mostrarci tra di noi, ci scambiavamo le boccacce per vederci dall’esterno, ma quanto tutto questo era falso e insipiente, mossette da teatrino dilettantesco, noi, civettuole.
Ma la realtà, dov’era la realtà, qual era il vero aspetto di noi?
Intanto a questa domanda non ti rispondevi e ancor meno lo facevo io; continuavi a tormentarti i riccioli neri imbronciata, io ti vedevo e per reazione anche io mi tormentavo i riccioli neri, ma dall’altra parte, chi delle due aveva iniziato per prima?
"E gli altri?” ti chiedevi “Gli altri che guardano da fuori? Vedono le mie idee, i miei sentimenti che hanno un naso. Il mio. E occhi,di pece, gli stessi che io non posso vedere. Che relazione c'è tra le mie idee e il mio naso?”
E mentre tu ti preoccupavi di far quadrare il bilancio tra l’Iperuranio e il tuo naso io pensavo agli occhi, non avrei mai potuto guardarmi negli occhi.
Potevo solo fissarli nei tuoi e a tempo limitato, quando decidevamo di alzare la testa ma, ci scrutavamo entrambe, come se all’improvviso si dovesse compiere non so quale prodigio per il quale dalle pupille dovesse saltar fuori un coniglio.
La realtà è che io non potevo vedermi vivere e, tantomeno, guardarmi negli occhi.
(Due di Una)
L’altro giorno passeggiavo in questa città che non ha neanche una salita, è strano per una città, non puoi neanche sperare in una discesa che ti allevi il passo al ritorno, ad ogni modo, non volevo che Nessuno mi guardasse, cercavo la solitudine perfetta, quella vera che può compiersi solo nello sciabordare di gente avanti e indietro nella strada dello shopping, alle sei della sera.
All’improvviso vidi una sconosciuta, la vidi con la coda dell’occhio, Una che passeggiava come me ma dentro una vetrina, Una col cappotto a quadretti identico al mio.
Solo poi la riconobbi.
Era lì che faceva quello che facevo io, ma dall’altra parte, era me, adesso lo sapevo, era me come mi vedevano gli altri passare per via in un attimo di distrazione, una delle tante in città.
Forse avrei potuto braccarla in un attimo di vitalità, e chiederle come ci si sentiva ad essere me ma dall’esterno.
«Che hai?»
Le chiesi a bruciapelo e mi fermai a guardarla.
«Niente»
Mi rispose con una voce che sentii con le orecchie dall’interno delle mie viscere.
Finché m’illuminai e tutto mi fu improvvisamente chiaro..
"Sono anche io così, quando non penso a me stessa pensante? Dunque per gli altri sono quell'estranea imprigionata nella vetrina".
La cosa mi fece orrore assoluto.
Ferrea Logica che, da sempre, mi distingueva, macinò per me pensieri fino ad insinuarmi, piano piano, sotto pelle l’idea che quella che vedevano gli altri era lei e non me e, forse, altre Centomila ce n’erano in giro, una ogni due pupille che incrociavo a seconda di chi mi vedeva e delle idee che aveva su quel cappotto a quadri azzurro.
Ad ogni modo si trattava di esseri estranei da me, non ero di certo io tutte quelle, non le conoscevano, non sapevo cosa facevano, che pensavano.
Iniziai a tremare, volli subito tornare a casa, sapevo che c’era, sapevo che era lì che ne avevo una nascosta nell’armadio grande.
Volevo studiare lei, per vedere me, la sua estraneità era la mia solitudine.
La trovai, in una gruccia, e la appesi alla parete di fronte al letto.
l'originale
Scusa non ho firmato sono Ela di Anobii, Ciao
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