domenica 27 dicembre 2009

Anziché perdere tempo/ Preferisco buttarlo via,/Anzi, mi correggo/ il tempo va consumato.

Mi sono consumata anche io come il tempo in questi dieci anni, come la prima volta che sfogliai dissoluzione, le poesie (che poi sarebbero anche diventati testi di canzoni) di Morgan, l'allora 26enne leader dei Bluvertigo.
E adesso che io ho la sua età di quei giorni, rileggo dei passi con molta tenerezza riconoscendovi un percorso, il mio riconoscendovi una distanza da un'adolescenza che tra le pagine dissolte si specchiava.
E' un libro che si scioglie, che si disintegra in mano come i pensieri dell'autore,rimasticati come gomme postbelliche che rimangono utili in ogni occasione anche quando la poesia sembra non riuscire ad uscire dalla tasca dopo il tramonto.
Il pop aforisma pret a porter che sta bene in qualunque occasione, la commozione dell'allora con la ratio di oggi mi fanno dire che meritava comunque la ristampa.
Una nota stridente che si insinua, come un accordo sbagliato, tra il lirismo giovanile di un musicista e pagine, francamente, molto mature e icastiche, è proprio questa seconda edizione.
Se il libro è oggetto deve infatti anche appagare i sensi, la copertina nera era molto più consona, più in tono con le pagine che sfogliate, rimandavano alla ricostruzione di un uomo in pezzi.
Dissolto?
Forse sì, forse sciolto in una nuvola di giacchine rosa e ciuffi grigi, la copertina acchiappacitrullo con lo sguardo da dannato( fortuna che è una sovracoperta), finirà nascosta tra cimeli in disuso, quelli che metti in alto e che non vuoi arrivare a tirar giù.
La prefazione di Cinti è superflua e piuttosto vacua.

Dissoluzione
con una nota di Enrico Ghezzi
Di Marco Morgan Castoldi, Enrico Ghezzi (Collaboratore)
Bompiani, 2009

giovedì 10 dicembre 2009

Libera nos a maluamen

Non capita spesso, no, che i libri ben scritti vadano oltre il piacere sensoriale della parola finemente articolata.
Non capita spesso che le inflessioni dialettali e l'italiano popolare, quello regionale e marcatamente caratteristico di una zona si amalgamino alla perfezione con un'eufonia rara.
E non capita spesso che questo alto scrivere diventi spassosissimo per le innovazioni stilistiche e di contenuto.
Di regionalismi, essì, ne abbiamo un po' piene le tasche ma questo è fuori da ogni sospetto di moda, lontano nel tempo e nello spazio come Malo.
Io sono sarda, per cui il veneto non lo mastico affatto bene, e ciò mi sono divertita però.
Ci ho provato anche io, ci ho provato a pensare a come quella vita di Malo negli anni '30-'40 fosse così simile a quella di un paesino sardo negli anni '80-'90 con le macchiette, i personaggi caratteristici, i modi di dire e di fare.
E così, giocando, giocando ho pensato che nella mia infanzia non ci furono (fortunatamente) canzonette fasciste delle quali poter mistificare i senso.
Ma quando ero piccola io c'era Ligabue (ahimè)
così cantavo
certe notti la radio che passa negli anni
sembra avere chi tu chi sei.

Perché l'autobiografia nel parlare di Libera nos a Malo?
Perché non si può fare altrimenti che calarvisi dentro e riviverlo sulla propria pelle declinato nel proprio mondo.

Libera nos a malo
Di Luigi Meneghello
BUR Biblioteca Univ. Rizzoli, 2006

domenica 29 novembre 2009

...di musica si vive/ di poesia si muore

Vinicio "Mr. Mall" Capossela e Vincenzo "Mr Pall" Costantino Chinaski si sfidano a colpi di versi in un ring poetico pongo sbronzo, tematiche care ad entrambi, a dire il vero un po' troppo pseudobeat et wannabebukowski per il mio gusto.
Chinaski in prosa non è malvagio, Vinicio, come suo solito si perde nel vaneggio e risulta, a tratti, ridondante e superfluo.
Tutto sta nel come lo si legge, questo libro: bisogna avere nelle orecchie le due voci dell'agone, le loro inflessioni così caratteristiche e icastiche, quel modo di masticarle, le parole.
Così sì che ha sapore questo libro, nell' "a voce alta" nel reading ubriaco ed estremo, con gli occhi sempre bassi e disperati dell'uno mentre si attorciglia la barba imbarazzata o nelle mosse massicce e macistiche dell'altro che cambia angolo del ring non appena cambia la prospettiva.
Ne rimane una Milano straniera e straniante, esterna, non vissuta, 'che è vero che è difficile chiamare un posto "il mio barrio" in questi luoghi; rimane un po' d'amaro, rimane, talvolta vita in pillole:
"Sapete, amici, io vorrei avere gli occhi azzurri per vedere più azzurro il mondo, ma purtroppo li ho marroni".
Ed è così nella solita vecchia Volvo e nell'affondamento del Cinastik che, a noi con questi Caronti da Chiavicone, è dato attraversare la "Moscova".

In clandestinità
Mr Pall incontra Mr Mall
Di Vinicio Capossela, Vincenzo Costantino
Feltrinelli, 2009

mercoledì 28 ottobre 2009

-Il migliore dei mondi possibili? -Ma dobbiamo coltivare il nostro orto

Non sono certo io la persona più adatta a parlare del Candide, le mie basi filosofiche non mi consentono di addentrarmi più di tanto nel dibattito della filosofia moderna e del secolo dei Lumi so ben poco.
Una cosa però posso dirla perché riuscirebbe ad interpretarla anche "una scimmia che insegue due belle ragazze", ovvero l'evidenza della critica alle posizione Leibniziane dell'"ottimismo" e del "principio della ragione sufficiente" di Wolff.
Non è che cosa, è come lo si fa però.
Le teorie vengono demolite punto per punto con la sottile arma dell'ironia un po' cinica, "il migliore dei mondi possibili" non si compie mai perché è un'aporia, impossibile da pensare in quanto empiricamente intraducibile.
Si può, forse, solo teorizzare a livello metafisico aut metodico (cartesianamente inteso) e tutto ciò non appagherebbe Voltaire che, con il suo alter ego Pococurante direbbe "che noia".
Il tema portante è quello della casualità vs. causalità, qui la chiave di questo spassosissimo romanzo che seppure filosofico è talmente ricco, ironico e ben articolato che fa dimenticare i buchi della trama e le incoerenze narrative.
L'Assurdo nella sua più profonda esaltazione si dipana pagina dopo pagina, i personaggi allegorici si susseguono e si intrecciano fornendo lo spunto per gli strali di Voltaire che non risparmiano nessuno: dal teatro alla Francia, dall'Inghilterra alla Chiesa. I personaggi sono altrettanto variegati, c'è: Martino, manicheo e deista, Cocomo, l'uomo come essere universale senza confini razziali, la vecchia e Pangloss, il filosofo "ottimista" lui che conosce tutte le parole come da nome che è l'apoteosi dell'assurdità e della negazione dell'evidenza.
Candido, l'ingenuo e mite Candido, alla fine,però si arrende e si rassegna a coltivare il proprio orto, per necessità.
Fuor dalle implicazioni filosofiche, è comunque un libro molto piacevole da leggere, facile al risoamaro, intelligente, colto, divertente, i suoi diversi piani di lettura fanno sì che possa essere letto anche se non si conosce la filosofia e non interessa, semplicemente ne è talmente permeato che passerà così, senza colpo ferire, una piccola lucina dal secolo dei Lumi.
Oppure:
qui

Candido o l'ottimismo
Di Voltaire, Stella Gargantini (Traduttore), Stella Gargantini (Curatore), Giuseppe Galasso (Collaboratore)
Feltrinelli, 2004

venerdì 25 settembre 2009

E il vostro naso?

Uno è Nessuno, i Centomila modi dell'Es.
Nella scoperta Novecentesca dell'Io di fronte a Luigi Pirandello è necessario togliersi il berretto (a sonagli?) e prendere atto di come la ricerca di un qualche nome con il quale chiamarsi debba per forza passare attraverso gli occhi dell'Altro.
Il demone del (non) riconoscimento aleggia potente nelle cose di tutti i giorni, come quando la mattina, incrociando uno specchio, si prega: "dacci oggi la nostra immagine quotidiana" con il desiderio inconscio che sia la più uguale possibile a quella di ieri.
Così si incastona la follia di Vitangelo Moscarda, che non è quella del mondo che gli finge attorno di Enrico IV, che è quella di essere altro ma con caratteristiche precise, non è la follia sana del cambio del nome/identità di Mattia Pascal, non sono i Sei Personaggi che cercano autore e quindi corpo, è la follia del Sè che stenta a chiamarsi tale, senza nome, senza corpo, senza professione.
Essere Nessuno per non doversi riconoscere in qualcosa, sentimento fanciullesco dell'Uomo che non si capacita più di non riuscire a schematizzarsi, a categorizzarsi, frantumato nel prisma di occhi altri stenta a ricomporre le sue centomila sfaccettature.
Ed è tutto qui, signori, sentimento condivisibile quello di Vitangelo, la scoperta della percezione di Sè per mezzo dell'altro, lo scardinamento dell'oggettività illuminista e della passione ottocentesca che corre sui binari del Vuoto, del Nulla, del relativismo novecentesco.
Lungi da me fare un'analisi letteraria di questo romanzo, 'che di accademismi son piene le scuole, sul linguaggio desueto e a tratti dialettale, sull'uso teatrale da abbattimento di quarta parete, della seconda persona ne rivolgersi al lettore; questa vuol essere solo una constatazione mimetica, giacché anche voi, qualche volta, avrete provato lo sconcerto, dopo che qualcuno vi avrà fatto notare che, il vosto naso, pendeva irrimediabilmente verso destra

Uno, nessuno e centomila
Di Luigi Pirandello
Einaudi, 2005

venerdì 28 agosto 2009

Wild is the wind

Dom 16 Ago – Morgan e le Sagome, Arbatax (Piazzale Rocce Rosse)

Per chi non conoscesse le Rocce Rosse di Arbatax alcune coordinate.
Immaginate di entrare in un anfiteatro naturale dove il rosso dell’altezza delle rocce a picco sul tirreno toglie il fiato, immaginate un gran canyon, col mare di Sardegna sotto, immaginate il tramonto e le prove delle Sagome in pieno cazzeggio, questa è la cosa più vicina alla felicità che abbia sperimentato quest’estate, questo è uno dei luoghi più belli dove si possa suonare.
Che dire del concerto di Morgan, ultimo del tour con le Sagome, ultimo di questa tranche?
Potente, psichedelico, meraviglioso anche a detta di chi quest’estate ne ha visti già tanti, se Morgan doveva concludere ha concluso in gloria.
Mai avevo peregrinato per tutta la Sardegna all’inseguimento di un cantante, l’ho fatto solo per Marco Castoldi, vorrà dire ben qualcosa, e molte aspettative.
Nota di colore, appare il sosia perfetto di Morgan, esaltato, vestito come lui ma modello mercatino, offre uno spettacolo pietoso e lì tocco con mano cos’è questo baraccone di X factor, perché la gente pur di avere la foto col fantoccio ci si butta, rabbrividisco come sempre mi capita con le pantomime mal riuscite.
È alle 21 e 30 che inizio a capire come andrà a finire, una prima fila di aficionados, dietro qualche ragazzina accompagnata dai genitori, qualche altro giovane molte persone “di una certa età” che non parevano avere intenzione di adescare adolescenti con “sigarette turche”.
La situazione appare desolante e il mio umore oscilla tra due diversi sentimenti:
variabile uno, ovverossia apologia dell’egoismo, che mi vede felicitarmi con le varie mestessa con cui coabito per la dimensione umana e apparentemente interessante che avrebbe potuto prendere il concerto;
variabile due, ovverossia sindrome delle braccia in picchiata, nel notare quanto comunque, musicalmente, Morgan attiri meno degli Ska-P o dei SubsOnica, che suonavano alle Rocce Rosse nei giorni precedenti.
I giornali locali lo definiranno un vero flop di pubblico ma se la discriminante è la qualità e se vi piace la psichedelica avete fatto molto male a non esserci.
Nel preconconcerto sono le note di David Bowie a tenerci compagnia, quelle che oscillano dal periodo delle odissee stellari fino all’Aladdin Sane ad anticipare il viaggio galattico, il mondo di alieni fluorescenti, la vita su Marte che le Rocce Rosse suggeriscono e, last but non least, il fatto che chi di dovere fosse stato abbondantemente messo al corrente nei giorni precedenti che nella stessa location vi suonò proprio lui parecchi anni fa (o forse, ipotesi più vitale, è la musica che passa ad ogni preconcerto ma, perché rovinarmi da sola l’idea Romantica della voluta affinità? E, a proposito di Romantico, sarà con le Ombre dell’Eroe Lele Battista che si continuerà fino al momento del concerto vero e proprio.)
Le poltroncine nelle quali ci hanno costretti sono ad una certa distanza dal palco e questo non aiuta né noi nè i musicisti ad avere una sintonia immediata, la sproporzione è evidente nel momento in cui ci sono poche persone per distanze da grandi masse.
Ad aprire al buio è sempre la voce di Pasolini con quel suo fare metatv e da dentro il medium analizzare in profondità il ruolo dei media, come quando fai di quei sospironi perché il genio ci arriva sempre un millennio prima e facendogli il coro si finisce triturati dal meccanismo, ogni volta che sento quell’incipit mi amareggio moltissimo per cui... il dunque.
Morgan entra da solo, giacca nera e pizzi, “nastri e... passamanerie” a sfidare qualsiasi barometro presente e assente, si siede al piano e attacca Contro me stesso; da solo strazia il piano e gli altri ammennicoli sonori, da solo sfida la laringe non ancora calda nella desolazione del suo pezzo più lacerante che cresce poi improvvisamente, canzone senza ritornello e senza apparato di strofe, fino all’ingresso delle Sagome che appaiono, si preparano, ombre silenziose, che entrano ex abrupto dentro al pezzo dandogli profondità e complessità sempre maggiore per finire in una lunghissima coda nella quale Morgan e la band si dilettano a proseguire, quasi sdraiati sugli strumenti, dilatano le note per sfilacciarle e ricombinarle come un dna sciolto, demiurghi di alieni suoni quasi atonali.
E alieni lo sono un po’, soprattutto il fluorescente completo rosa elettrico di Megahertz.
Morgan accenna appena un piccolo saluto e parte con la sua Amore assurdo, quasi parlata, una storia raccontata con quei suoni da tempo che fu o forse troppo lontana dalla voce di un inizio concerto; qui le prime magagne: Morgan fa dei cenni a Megahertz, non va, non sente, sale il tecnico, il problema?
Ovviamente il mac.
Continuano a suonare in un crescendo di assurdo amore e quelle “passamanerie” shackerate da delirio composto perché ognuno è fermo immobile se non per l’atto di suonare, neanche Morgan si alza dal piano e lì rimarrà per Le Ragioni delle piogge così tintinnata dove i cori di Carusino e Megahertz cominciano ad essere maggiori e dove finalmente Morgan si alza improvvisandosi xilofonista e inizia la variabile polistrumentale dove ognuno mette mano a ciò che può. Anche questo brano soddisfa le alte aspettative, si tratta di una canzone importante del repertorio morganatico e molto attesa, un post waterloo come lo aspettavamo noi.
Infine Morgan scappa dietro le quinte a levarsi giacca e camicia lasciandoci in ottima compagnia di Sagome piuttosto psichedeliche e un disperato e giovanissimo tecnico che cerca in tutto questo di mettere continuamente mano al mac, bianco, senza deturpazioni di presentatrici bionde, mai più felice di osservare una mela morsa.
Esce di nuovo il Castoldi, va diritto al piano e attacca una struggentissima e delicata You’ll come back home someday salvo poi passare a delle variazioni western, così come la pensò Endrigo ma con interventi elettronici, dove entrambe le chitarre assumono il controllo solo guidate dall’attrezzatura morganatica. Il risultato è molto coinvolgente e stento a star seduta e, invero, deve essere la stessa cosa che provano i miei vicini se anche le loro spalle si muovono a tempo, le poltroncine ci vanno veramente troppo strette oramai.
Ma è con Heaven in my cocktail che il concerto entra proprio nel vivo, la più psichedelica delle canzoni del Castoldi vorrebbe trasformare il piazzale delle Rocce Rosse in una pista da ballo e Morgan sta in piedi e va, poi sta al piano, si ribalta sulle tastiere alternandosi con Megahertz, siamo al puro delirio, ma nessuno si alza, personalmente ho paura di essere linciata da chi mi sta dietro ma faccio molta molta fatica a stare al mio posto.
“Le lacrime nei tuoi occhi” si fondono nel finale fino ad andare infrangersi in una specie di Rapsodia in blu che traghetta nella risacca delle Rocce Rosse il vascello elettronico verso un enorme incipit di DaAadA con tutti ai cori e suoni che non escono, il risultato è comunque brillantissimo e certo non monotono, Morgan al piano si sbatte, si gira, tocca tasti, ci tenta col mac, ma si riprende sempre al momento giusto come quelle bamboline a molla che nonostante uno provi a sballottarle rimangono sempre nella scatola.
Dalla coda della canzone dell’eterno ritorno scivola al primo cliente dell’Ottico (Un) di De Andrè in un crescendo di psicodelizie sonore che fanno lo stesso effetto di grattamento del miele in gola ma al contrario, i suoni sono talmente stridenti, contrastanti e pomposi da essere percepiti dalle orecchie come gradevoli eufonie.
E lo sono infatti, sebbene Morgan, qui e nei "cocktail", cerchi il colpo di genio, l’effetto speciale raffinato, sovrapponendo dissonanze con piano e sinth, o anche grossolano, salendo su uno sgabello; poi, scambiando con Sergio sorrisi di complicità, improvvisano un duetto di percussioni che inevitabilmente rimanda a tempi di bluvertigini, poco prima di finire i clienti. Allora riprendere con la presentazione di mercanzie dell’ottico, affrontando al contrario il mondo delle lenti che non portano “in wonderland” come nell’originale, ma stravolgono la visione spoonriveriana dell’epitaffio iniziale per usarlo come chiusa.
Forse un lavoro eccessivo, o meglio eccedente, quello che fa il Castoldi su questo pezzo, potremmo dire superfluo?
Potremmo anche, ma non lo diremo, perché mi è parso comunque un esperimento interessante.
A questo punto, dal centro della platea mentre Morgan chiacchiera e intrattiene cercando di assemblare pensieri per lasciare tempo al tecnico di occuparsi del mac un ragazzo, non gli grida “Morrrgann, perché non possiamo venire lì?” lui risponde “Le poltroncine sono una prova per vedere quanto il pubblico riesce ad essere eversivo”.
Partendo dal presupposto che, concettualmente, la vera eversione sarebbe stata quella di non alzarsi ad esplicito invito, noi siamo volati sotto le transenne perché, in fondo, non aspettavamo altro e Morgan imbraccia il basso, sarà Mega da ora ad occuparsi di tastiere e teremin.
Parte immediamente con Se, il suo brano traduzione dei Pink Floyd,uno degli esperimenti traslatori che tanta fortuna hanno sia nella discografia che anche e soprattutto nei live morganatici; ora appare più vivo, adesso è diverso è arrivato più avanti che può, sta in piedi su una cassa ha vestito i panni del rocker e si agita a contatto col pubblico.
Dice che così va meglio e attaccano Crash con il suono del teremin marcatissimo e onnipresente, il pezzo scivola morbido senza troppi stridori, a dispetto del titolo, in uno sciabordare ondulatorio del pubblico che ormai lambisce il palco; quindi torna al piano e smanetta con gli strumenti.
Qualcuno gli urla qualcosa a proposito di un compleanno, riceve gli auguri da Morgan e Sagome prima in minore e poi in maggiore così per ripristinare una qualche pseudo forma di allegria.
Gli consigliano di buttare il Mac di cui si lamenta spesso e successivamente l’I-phone in cui cerca i testi delle canzoni, lui risponde che forse stasera poi non ha troppa fortuna con le mele, viene fuori che la festeggiata ha nome Barbara, per cui inizia a suonare l’omonima di De Andrè completamente estemporanea con le ottime sagome che, pur permettendogli l’improvvisazione, lo tengono imbrigliato in legami di scaletta impedendo derive da pianobar e pezzi su richiesta. C’è comunque molta sintonia tra i membri del gruppo e questo traspare anche dal loro apparente divertimento on stage e dalla capacità di mutare tutto con uno sguardo avventurandosi in passaggi futur-jazzistici.
Non Arrossire, la cover di Gaber, riporta tutto ad un’atmosfera più retrò la suona al piano, Morgan, chitarre presenti, basso risoluto. Un’interpretazione morganatica un pochino “eccessiva” rispetto all’algido controllo dell’originale Gaberiano ma ci ha abituati così Morgan, ad interpretare con partecipazione fino a sfiorare il “patetico” detto alla greca però, il che è una cosa bella.
Da cover a cover, sempre pseudo improvvisando si va a Morir per delle idee come ormai spesso accade con intermezzo in Addams Family, ma nessuno ha mai visto la famiglia Addams? No perchè ogni volta che fa quel pezzo i claps del pubblico,che dovrebbero sostituire lo schioccare delle dita, vengono messi un po’a caso dagli astanti.
A dispetto di chi dice che sia da blasfemi, dopo lo straniamento iniziale, tutto ciò non mi dispiace, perlomeno live, è una tipica morganata e se ne prende atto.
Sta ancora al piano dove intona il Mio Mondo di Bindi salvo per poi alzarsi e cantarla con tanto di microfono e asta e pugni chiusi come un interprete d’altri tempi passando poi alla seconda strofa in inglese.
Sul pezzo non si transige, meraviglioso e va meglio dal vivo che su cd anche se continua con quel sottofondo di archi farlocchi anche on stage, non mi convincerà mai ma scalda il pubblico ed è il momento della sua hit: Altrove con un arrangiamento meno marcato all’inizio, un incipit che arriva da lontano per traghettare “altrove” tutta la canzone. Mega fa cori robotici mentre ci si svincola da convinzioni, pose e posizioni per veleggiare, forse per comunanza di concetto più che per melodia, verso Volare di Modugno per poi riprendere con la chiusa di Altrove, passano tanti minuti nei quali il gruppo si diverte e pare improvvisare, Morgan ci coinvolge in cori dissonanti, finché, ispirato, di spalle, col microfono in mano non comincia con un “love me love me love me” quasi sussurrato, quasi non ci credo, faccio tutto il labiale, molti non sanno neanche di che brano si tratti.
Penso che non la farà tutta, penso che si risparmierà e invece canta fino alla fine Wild is the wind , senza cedere sugli acuti, trascinando il suo gruppo e lui solo come cantante fino a metà quando strimpella qualcosa, la esegue per intero con mio sommo compiacimento e poche parole da aggiungere.
Ma il momento clou arriva con un’esecuzione parossistica de La Cosa, esageratamente spinta fino alla disperazione che si ha nel volere tutti la stessa cosa come possibilità, già è canzone psichedelica e quasi dadaista di suo, con le incursioni delle Sagome lo diventa ancora di più, Morgan fa sì che diventi un quasi duetto col pubblico uno scambio di "cosa? che cosa? La stessa. Cosa" in molteplici varianti con un eloquente (e autocompiaciuto?) “vorreste ma non potete salvarmi” un divertente “neanche tu che ti vesti come me ti potrei salvare” riferito al sosia da outlet suddetto e poi un apocalittico “nessuno di noi si potrà salvare”.
È vero Morgan, è vero.
A chiudere It's no Game iniziata in giapponese urlata come merita per poi finire tra suoni devastanti con Morgan al piano che la traduce parola per parola, che la rende intelligibile, strale per strale, che sviscerandola la dona, per poi riprenderla quasi in un nuovo crescendo ricordandomi perché, alla fine, questo artista ancora mi lega in qualche modo a sé.
E poi si avvicina, ci saluta, ci ringrazia.
Ed abbiamo noi un bell’insistere a chiedere al bis, salgono a smontare, mettono la musica, è Changes e noi sotto il palco la cantiamo tutti a squarciagola ma non serve e non servirà a farli tornare fuori.
Peccato.
Per il resto Morgan con le sagome c’è e funziona ancora molto bene, lo aspettiamo, speriamo non tra altri tre anni nell’Isla, magari con meno aspettative da parte nostra e una maggior voglia da parte sua.

giovedì 20 agosto 2009

Non avevo mai sospettato quanto fosse importante l'intonazione di un abito con il colore del cielo

Disperato e delicato come solo i giapponesi sanno essere.
L'arte, la distruzione e la decadenza di un mondo a metà, la tradizione e i poeti maledetti letti a Tokio nel dopoguerra.
Ma è l'anelare alla morte procurata come l''arrotolarsi delle spire di un serpente per l'incapacità di vivere il cambiamento, per la lotta tra l'onore e la vita la cui risoluzione può essere solo la decadenza: "fare il decadente era l'unico modo di sopravviversi".
Un"dettaglio"abbastanza importante, non esiste una traduzione diretta dal giapponese di questo libro, però ci ha pensato uno a caso a tradurlo dall'inglese per Feltrinelli: Luciano Bianciardi, una bella sorpresa vederlo destreggiarsi tra ribellioni elementarmente sovversive :
- Io ce l'ho un posto dove andare
- E dove andrai? Da un amante?
- No, farò la rivoluzionaria.
E madri pallide che preferiscono i fiori estivi.
Niente è assimilato e ponderato, i personaggi sono sballottati come sballottato è il Giappone perdente nel post conflitto.
Un libro veloce, delicato ed intenso, dove il mal di vivere è mitigato da una serenità ineluttabile di fondo e dai profumi dei fiori di stagione dei giardini nipponici.

Il sole si spegne
Di Osamu Dazai
Feltrinelli, 2009

martedì 18 agosto 2009

Forse è volata, forse più non vola.

Gio 13 Ago – Morgan: "Non all'amore non al denaro né al cielo" L'Agnata (Tempio Pausania)
Cosa preferite che vi dica?
Del tuffo al cuore che si aveva quando percorrendo il vialone che porta all'Agnata d'intorno c'erano dipinti con il faccione di De Andrè ad interpretare tutti i personaggi di Non al Denaro?
Del vedere la tenuta dei De Andrè, di Dori Ghezzi che si aggira tra i presenti come una perfetta padrona di casa?
Del sentire la mancanza di Fabrizio, così intensa e forte da dare sacralità ad un luogo che è sacro ma alla latina, quando sacro ancora voleva dire separato?
Del piano a coda, montato sotto i nostri occhi sul prato verde, del pubblico così eterogeneo dai bambini agli anziani, abbondantemente ripulito dalla fanciullesca acefalia imperante però allo stesso tempo paralizzato, anche un po' frigido a volte raramente fuori luogo?
Di noi sotto il sole dalle due per guadagnarci la prima fila, noi con una crisi d'astinenza di anni e anni, carichi di aspettative (mai caricarsene così tanto, perdio, poi fa male quando vengono sistematicamente deluse)?
Ma questo non importa, tutto questo è di un'inutilità sconcertante quando poi, alla fine del vialone è un ritratto di Morgan imprigionato in un prisma a dominare, quando poi l'attesa è per lui, quando poi lui che canta De Andrè ha delle potenzialità così gigantesca che non puoi credere di essere lì in quel momento, non puoi credere che assisterai ad un evento, proprio tu, che non lo becchi mai, che abiti lì, nell'isola.
Alle sei meno un quarto già ci avvisano che stanno per iniziare, mi stupisco della puntualità ma me la spiego con gli impegni successivi di Fresu.
Infatti è lui, il direttore artistico del Time in Jazz, insieme a Dori Ghezzi a presentare Morgan, con sperticate lodi da parte di quest'ultima: "molti hanno iniziato a conescerlo adesso ma hanno visto neanche un quarto delle sue potenzialità".
Si abbracciano Dori e Morgan, lo faranno spesso durante la serata, un abbraccio stretto, quasi un aggrapparsi.
E poco prima Morgan era uscito dalla porta a vetri, quella che sta dietro la tenuta, il lato B della facciata ricoperta d'edera, esce e saluta e noi siamo a un metro di distanza, e la sento come una cosa surreale ma piacevole,e penso solo "eccolo, ci siamo".
E parte subito con "qualcuno tornerà" abbastanza intensa, meglio, molto meglio al piano solo che su cd, poi fa "il suonatore Jones" e lì vengono fuori le magagne, il solito cazzo di Mac!
Casse che gracchiano, suoni sintetici che non escono e lui si arrabbia per il volume: "vi avrebbe spaccato le orecchie" dirà il suo fonico poi.
Problemi tecnici e una leggera approssimazione, nell'attesa manda l'intro con la voce di Pasolini, quello dove parla dei media e della censura, mi strappa un sorriso.
Ma questa è un'altra storia di parentesi e di errori, di sole che tramonta a volersi giustificare coi riflessi sui tasti per testi nel dimenticatoio.
Ma non fa nulla e si spaventa e suona il tema di "incontri ravvicinati del terzo tipo" forse lo inquieta averci così, a un metro da sé.
Finalmente si ricorda che è in casa "De Andrè" e suona "Morire per delle idee" inframmezzata dal tema di The Addams Family, non una novità se il pubblico non fosse totalmente incapace di seguire il tempo con le mani, è una cosa che ho notato, l'ansia di battere sempre una volta in più.
Ma è stata "altrove" ad accendere il pubblico, la hit, il richiamo, ovviamente con un intro che per molti appariva irriconoscibile, esaltati solo da quell'inciso: Però conclusa e intercalata da "volare" come le leggende dcono gli piaccia fare ai Piano Solo.
Poi è il suo momento, "Amore Assurdo" straccia l'anima, strozzata dal nuovo timbro morganatico e poi "Contro me stesso" ammutolisce anche chi, nonostante tutto, continuava ad urlare cantando, fuoriluogo come poche cose.
Suda morgan e si agita e combatte con mac e sinth, e poi invita Fresu ad improvvisare con lui, dal canzoniere di De André e a quel punto che l'atmosfera cambia.
Un lunghissimo intro jazz di piano flicorno introduce "Preghiera in gennaio" e, finalmente, liberato da orpelli e computer, piano, voce e flicorno, a casa di De Andrè, bello da morirci un po' a ghiacciare gli spettatori a 30 gradi all'ombra nell'acuire una decennale mancanza.
Poi un "ottico"a partire dal primo cliete psichedelica e appoggiata al flicorno che serviva un po' da controcoro per finire con una "Canzone dell'amore perduto" resa ancor più malinconica dai fiati, che nella campagna di Gallura gli amori perduti fanno male sempre un po' di più.
Ed è il devastante peso dell'addio.
Dice che vorrebbe risparmiarsi il siparietto del bis per cui si alza e torna al piano per concludere con Ni dieu ni maitre (chissà se è scritto bene) un Leo Ferrè tradotto in italiano omaggio, come il fiocchetto per una volta pertinente, al cantore anarchico italiano da un altro anarchico cantore, e con questo ci saluta dopo appena un'ora e dieci.
Non nego una certa irritazione da parte mia nel suo essere stato così esiguo, nell'essersi risparmiato un po' nei tempi e per aver quasi completamente saltato "Non al denaro" a cui il concerto doveva essere dedicato e un po' d'insoddisfazione a caldo che, a freddo, soprattutto nel rivedere la bella prova con Fresu e il pezzo di Ferrè mi pare sia stato un evento unico, il giusto battesimo per un ritorno degno

mercoledì 22 luglio 2009

Lontananze d'azzurro per noi

Lun 20 Lug – Franco Battiato: Notti mediterranee: Anfiteatro Romano, Cagliari
Le cose belle, quelle straordinariamente belle, sono quelle che non ci si aspetta, anche se si tenta di preventivarle, anche se grazie a quello che si è già vissuto le si può immaginare.
Così mi sentivo io fuori dai cancelli, quasi sovrappensiero, ma meno male non mi sono perduta anche perché la folla fa quello che deve fare ti adotta lei quando tu non hai la coscienza dell’andare quando però ti rimane a percezione che quello che stai per vivere è un’esperienza che conosci ma che ogni volta riesce ad essere nuova e magica.
In fondo si trattava pur sempre di un concerto di Franco Battiato e se ci aggiungiamo una location come quella dell’Anfiteatro Romano di Cagliari e un maestrale leggero leggero da spazzare l’afa pesante dell’aria estiva avevo ben ragione di avere alte aspettative.
La cosa più brutta delle grandi aspettative è che non si risolvono nel modo in cui, appunto, ci si aspetta ed è andata così anche stavolta, infatti è stato meglio, molto meglio.
Provare a parlarne non è impresa semplice: avete mai provato, da bambini, a sforzarvi di spiegare, con parole compiute, l’eccitazione all’altezza dello stomaco che si prova a tentare di afferrare la polvere che galleggia nei raggi di sole che entrano dalle finestre e non riuscire a prenderli?
Ecco, più o meno una cosa del genere.
Quindi tenterò di limitarmi al concerto vero e proprio per quanto sia possibile scindere una cosa che poi diventa così intima nella sua evoluzione, ma credo che sia sensazione comune tutta questa intimità.
Il costo dei biglietti, non dico proibitivo ma quasi, ha fatto in modo che l’età media del pubblico si aggirasse attorno al mezzo secolo, contando che gli ottantenni erano ben rappresentati, è facile constatare che la popolazione giovanile c’era comunque e anche che l’Anfiteatro non fosse zeppo come nelle grandi occasioni. Il pubblico, però, si sarebbe rivelato attento, partecipe e anche troppo vivo.
Noi, abbastanza abituate a ben altre folle, abbiamo fatto fruttare il nostro biglietto non numerato nel posto migliore che si potesse sperare (nonostante le mie perplessità iniziali…dovrei fidarmi di chi ne sa più di me una volta in più) per vedere un concerto di altissimo livello nel migliore dei modi possibili.
Più o meno alle nove e mezzo vengono annunciate le Lilies of Mars, spin-off delle Mab formato dalle chitarriste più un dj e un batterista (nota di “colore” non richiesta la rastona bionda adesso ha i capelli di un vivo verde-elfo-smeraldato). Bene, le mie conterranee mi stanno simpatiche, sono brave perfino, ma l’ascolto prolungato, specialmente in questa versione mi provoca uno smerigliamento tale da equivalersi ad un “breve invito ad ACCELERARE il suicidio” fanno quattro pezzi di lamenti in diretta dalla Terra di Mezzo e poi finalmente giù le luci e…
E adesso s’inizia veramente, adesso è il momento, potrei anche sorridere da sola ad immaginare l’entrata mentre i tecnici preparano il palco nella semi oscurità tanto che qualcuno grida “ e accendetegliela una luce mischinetti ‘tta ‘gà”, segno evidente che la provenienza del pubblico è trasversale e percorre tutta l’isola.
Entrano per primi il Quartetto Italiano d’Archi, il pianista e il tastierista multitasking con strumentazione da cyber punk musicofilo tutti assolutamente vestiti di nero, e il chitarrista Davide Ferrario, biancovestito e apparentemente scisso dal contesto.
Ma è all’entrata del Maestro che il pubblico si scalda per davvero sciogliendosi in interminabile applauso: “ci siamo” penso “ ci siamo…” mentre Battiato profondendosi in inchini e sorrisi guadagna la sua posizione seduto sopra un piccolo piano rialzato ricoperto da un tappeto orientale, aspetta che scemino gli applausi e dice: “il pubblico delle isole è sempre il più caloroso”.
Conquistati.
Con niente.
Ah, come lo conosci bene il pubblico delle isole Franco, sai bene che basta ricordargli la loro insularità, ergo differenza sentita come un complimento, per farli andare in visibilio; è un uomo di spettacolo, certo che lo sa, e la sua grande esperienza verrà fuori in più di un’occasione durante la serata.
Niente di meglio in questa situazione se non iniziare con un HAIKU delicato, giocato con suoni che rimangono sussurrati ma chiari e netti, come un breve Haiku giapponese appunto, il pubblico è già in visibilio ma è solo l’inizio dell’inizio.
Dice che alcune canzoni le fa rarissimamente ma gli piace variare il repertorio e ha scelto NO TIME, NO SPACE, non poteva farci regalo migliore, gli effetti e le tastiere arrivano al massimo sottolineata dagli archi che danno volatilità ad un ritornello da Odissea nello spazio, L’INCANTESIMO a seguire in un atmosfera più che onirica e LA QUIETE DOPO UN ADDIO da quel Ferro Battuto che temevo non accennasse neanche.
Lu Mastru è ispirato, siede sul tappeto come un poeta arabo da Mille e una Notte, beve alla nostra salute, canta, intrattiene e si accompagna danzando con le mani, tutto è molto ipnotico e coinvolgente ma sa anche cambiare repentinamente con un suono più marcato e sintetico, con una chitarra più presente parte UN’ALTRA VITA.
Poi sfoglia un “fiore” uno dei numero due “perché mi piaceva l’idea di tornare indietro così spero conclusa questa trilogia” e canta il pezzo che fu di Dalida: Il Venait D'avoir 18 Ans e a seguire un altro E Più TI AMO tutte molto sentite e partecipate anche dal pubblico che raggiunge il suo culmine con la pregevole cover di Endrigo ERA D’ESTATE che esalta con un arrangiamento battitaesco quello che già era un grande pezzo e poi LA CANZONE DEI VECCHI AMANTI a chiudere il bouquet.
Si torna nell’attualità con una POVERA PATRIA che viene accolta con una cascata di applausi così armonicamente ariosa contrastante con il testo pesante e contundente in cui la parte del leone la fanno gli archi con il loro retrogusto malinconico, poi una STAGE DOORS da far digrignare le anime e va a stemperare con IT’S FIVE O’CLOCK, sorridente.
Tocca poi impegnarsi con TIBET il pezzo inedito ispirato appunto alla questione Cina - Tibet e racconta che lui è stato invitato ad esibirsi in piazza Tienanmen ma non sa se lo vorranno ancora dopo questo pezzo, non lo conoscevo, il brano è carino, con una bella voce femminile, piano e mac suppongo, oltre agli immancabili archi.
Arriva anche il momento musicalmente epicizzante di TRA SESSO E CASTITA che declina nel puro brivido quando parte L’OMBRA DELLE LUCE e il suo misticismo che cattura a prescindere dal sentire di ognuno sull’argomento e continuando con LODE ALL’INVIOLATO dove la chitarra di Ferrario trova una collocazione più netta.
Ma l’acmè arriva quando Battiato si alza in piedi per cantare forse la sua più dolorosa, la più inflazionata anche, quindi non mi aspettavo che a quell’attacco d’archi mi si inumidissero gli occhi, LA CURA è stata perfetta e ho capito anche perché nonostante tutto e tutti coinvolga così tanto, se non perché è essa stessa un brano perfetto.
Immediatamente successiva CAFE’ DE LA PAIX ottunde i sensi e da un sapore speziato all’attesa di quel tè, mentre per i TRENI DI TOZEUR ci regala un aneddoto su un arabo che capiva solo il siciliano, pare divertirsi Franco e regge il palco come solo un artista della sua caratura potrebbe fare, è seduto, muove solo le mani, ma è impeccabile ed emana un carisma che catalizza.
Continua all’insegna di un progressivo tentativo di “alleggerimento” i ritmi si fanno più sostenuti, i cambi più marcati, i campionamenti e le tastiere più presenti, scorre LA STAGIONE DELL’AMORE e subito a rincorrerla una più pacata E TI VENGO A CERCARE così abbinate quasi a raccontare le dietrologie d’amore a seguire una STRANIZZA D’AMURI richiesta dal pubblico frutto di un “compromesso sindacale” tra il Maestro e i musicisti.
Ecco, una cosa che non sopporto proprio è quella di pensare il cantante sul palco come un juke box, vedrà lui cosa fare e come farla se no te ne stai a casetta e ti scegli la traccia dall’I-Pod.
Un’inaspettata MAGIC SHOP sempre eseguita in piedi manda comprensibilmente in visibilio l’anfiteatro e a chiudere l’immancabile singolo TUTTO L’UNIVERSO OBBEDISCE ALL’AMORE versione iperpop con tanto di ballettino.
Così Battiato s’inchina al suo pubblico dopo un’ora e mezza di spettacolo che pare volata tant’è che chiedo alla mia amica come mai avesse suonato così poco, ho perso completamente la cognizione del tempo e manca ancora tutto il Bis.
Il pubblico ha applaudito a lungo per ogni canzone, ci sono state anche le dichiarazioni d’amore da parte di qualche signora in platea e anche qualche altra, magari un po’ più interiore e assolutamente platonica.
Ma ri-escono i musicisti e ri-esce Battiato è il momento delle danze, inizia con SUMMER ON A SOLITARY BEACH estiva e fresca nella sua malinconia e a seguire un omaggio a Giuni Russo con un pezzo che aveva scritto per lei e ora campeggia tra i Fleurs: L’ADDIO e sempre per un altro grande, il più grande di tutti, un altro omaggio, c’è quella versione di INVERNO di De Andrè che tanto avevo apprezzato al tributo a lui dedicato da Fazio e per la quale, io, logorroica, ho finito le parole.
Ma poi l’atmosfera cambia, gli archi si fanno più consistenti e incisivi, le tastiere e i campionamenti acquisiscono ritmo e anche Ferrario che trova finalmente una giustificazione nel suo dimenarsi come se suonasse nei Ramones, L’ERA DEL CINGHIALE BIANCO è un delirio di suoni e già dall’incipit “Pieni gli alberghi a Cagliari per le vacanze estive” fa sì che sì che il pubblico vada completamente in visibilio.
Esce di nuovo e qualche sveglione, anzi molti, decidono di alzare i tacchi rischiando di far saltare il secondo bis che meno male buona parte del pubblico ancora chiedeva.
E allora di nuovo tutti fuori per una PROSPETTIA NEVSKI che porta un po’ di refrigerio e anche un po’ di autocompiacimento quando fa cantare al pubblico “e il mio maestro m’insegnò com’è difficile trovare l’alba dentro l’imbrunire” ma è disponibile e allegro, stringe mani, prende regali e con VOGLIO VEDERTI DANZARE trasforma l’autorevole anfiteatro romano in un’enorme festa danzereccia ballando anche lui con un’agilità sorprendente e facendo alzare anche la platea ottuagenaria in un quasi pogo esaltato.
Pare chiudere con L’ANIMALE, pare che sia tutto finito ma altro giro, altra corsa, CUCCURUCCUCU’ in coro col pubblico in piedi, danzante, felice, appagato, l’estasi collettiva della festa, “ma non posso lasciarvi così” dice e chiede al suo pianista un do maggiore per farci cantare quel ritornello da Vespa morettina, proprio quel CENTRO DI GRAVITA’ PERMANENTE con cui ci saluta e per davvero.
La sensazione che si ha all’uscita, nonostante il rammarico per quel pezzo che avresti voluto sentire e invece non c’è stato, è quella di avere assistito ad un grande evento, curato, perfetto in ogni dettaglio, catalizzante ed emozionante.
Lui, un grande maestro di cerimonia, perfettamente a suo agio nel tenere il palco e l’attenzione catalizzata su di sé, si permette delle sviolinate altissime e un repertorio, pregno e intenso prima che va a scemare nelle hits poi, senza sbagliare un colpo tenendo perfettamente le fila come in un racconto unitario, sempre perfetto nei tempi, nelle intonazioni nei piccoli gesti, curatissimi come una perfomance di teatro Kabuki.
Un concerto di Battiato è fatto indescrivibile e anche provandoci le parole non bastano mai, certe cose non si spiegano, non è giusto, si possono solo tentare di raccontare nel modo più lineare piano e possibile, per la cronaca, così, senza pretesa alcuna, solo con l’augurio che accada di nuovo e all’improvviso.

Ho chiesto alla polvere

Non posso parlare di questo libro prescindendo da quello che mi ha ricordato di più, non posso parlarne se non paragonando Arturo Bandini (o John Fante, c'est a vous) con quel Carnevali del Primo Dio .
Anche qui c'è l'America delle stanzette in affitto, dei mozziconi spenti, della Santa Arte dell'Arrangiarsi in attesa dell'esplosione, del riconoscimento di quell'altra arte, quella della parola.
Italoamericani entrambi, quindi ai margini, uno nell'est e l'altro nel west come che la cosa poi sia in qualche modo sintomo di un trattamento differente e c'è l'amore, non corrisposto, altalenante.
Ma il libro di Fante ha di diverso questo essere assolutamente impotente nei riguardi dell'amore e non riduttivamente in senso fisico ma anche nel modo di concepirne una grandezza e un assoluto che risolve tutto nella mente, la sua.
Camilla non è, potrebbe anche non essere lei o com'è, non è Camilla che ama Arturo Bandini, lui è innamorato delle sue possibilità come scrittore, lui vorrebbe una musa ma si limita a vivere un rapporto tormentato e fasullo con una ragazza messicana, impolverata anch'essa, anch'essa ai margini e destinata alla polvere infine.
La fuga dall'odore di cera della religiosità familiare ma anche il continuo esserne attratto e posseduto è un altro dei temi portanti con la variabile tipicamente cattolica preconciliare della colpa che si dilata astraendosi da lui per abbracciare una dimensione globale, il terremoto di Los Angeles come controparte di fronte ad un peccato di adulterio.
E sì, l'ego di Arturo Bandini e grande anche nel peccato, nella consapevolezza che le sue azioni vanno al di là dell'albergo di Bunker Hill, che si sviluppa in "bassezza" coi piani che vanno sottoterra anziché in alto, ma che hanno un valore universale perché lui è un grande scrittore, adorato da un mecenate potente, lui è l'autore del racconto, il cagnolino ride "che non parla di cani ma parla di uomini"... Solo che ci vuole tempo, ha bisogno di ancora idee per essere consacrato, per finire il suo romanzo, per abbracciare una donna vestita d'ermellino.
E Bunker Hill si sviluppa verso il basso, come verso il basso si affondano i personaggi di Fante, gli abitanti di una Los Angeles lontana dai Lustrini Holliwoodiani ma non cattivi, capaci al massimo dell'efferato assassinio di un vitello,solo con negli occhi la loro verde terra natale, il resto è deserto.
Lo stile si mescola toccando delle punte veramente di estremo lirismo nel racconto della dannazione o del rapporto col divino (forse non ha o non vuole altri mezzi per rapportarsi con ciò che non capisce perché troppo alto e sacro) e viceversa andando a sfregiare la carne con metafore ardite o sfiorando l'ilarità in molti punti.
Gran bel libro e consigliatissimo.
E adesso mi aspettano gli altri della saga di Bandini e accidenti a me che snobbavo John Fante.

Chiedi alla polvere
Di John Fante, Maria Giulia Castagnone (Traduttore)
Einaudi, 2004

sabato 4 luglio 2009

Lasciami leccare l'adrenalina

Ven 3 Lug – Mondo Ichnusa: Spiaggia del Poetto, Cagliari
Non vedevo gli Afterhours live dal lontano 2003 e ne è passato di tempo e di cambi di formazione.
Una sola cosa non è passata, la gente che chiede a gran voce STRA-TE-GIE STRA-TE-GIE e Manuel che con il suo solito aplomb risponde "E' bello stare legati ad una sola canzone, voglio essere ricordato così, che ogni volta che sta per partire un pezzo tutti inizino a chiedere Strategie",
Va bene Manuel, ti ricorderemo così e in splendida forma nonostante i tuoi 43 anni suonati.
Ovviamente gli Afterhours Strategie non l'hanno fatta neanche stasera.
Ma non ero lì per una canzone, ero lì per gli Afterhours, di nuovo...e ancora
pubblico eterogeneo, da festa della birra, seppur Ichnusa e questa è cosa buona e giusta, ma anche e soprattutto fans dei milanesi.
Luna quasi piena e, dopo la giornata più calda che fino ad ora ci ha offerto quest'estate anche un venticello dal mare, tanto per gradire.
Location perfetta se non fosse stato che gli After suonavano contro vento e chi era indietro non sentiva poi tanto o, almeno, questo riportano le leggende metropolitane, io ero talmente vicina alla cassa destra del palco che il mio orecchio sinistro ancora m'implora pietà.
Un inizio totalmente inaspettato, ore 22 e 30, con buona pace di chi “tanto non iniziano prima delle 11 e mezza” se ne stava fantasticamente incolonnato in viale Poetto tra “la sinfonia dei…clacson” e
meno male, forse è stato meglio così, fare anticamera non mi è mai piaciuto poi molto e mi ha salvata dalla tentazione subdola del banchetto del merchandising che è tradizione molto bella quanto dispendiosa.
Dove si va da qui apre le danze che ancora si stava al chioschetto Ichnusa tra l’incredulità degli astanti e “ma forse stanno solo facendo i ceck” tutti ci aspettavamo i Sikitikis che, a questo punto, devono aver fatto un matinée (scoprirò poi che non dovevano aprire ma solo fare un pezzo come “ospiti”); l’esodo verso il palco comincia massiccio e ovviamente finisco con davanti uno di duemetriedieci.
Meglio, mi godrò l’ascesa al palco, la montagna da scalare, l’avanzamento lento lungo la spiaggia, ‘che se ad una cosa ci tieni devi anche guadagnartela.
Il paese è reale a seguire, già mi fa intravedere D’Erasmo e le scarpe di Ciccarelli ma “dir la verità è un atto d’amore” e, nonostante l’attitudine sia molto rock, Manuel appare un po’ “cirdino” (cit.) e soprattutto distante, ringrazia a mezza voce e infila un pezzo dietro l’altro, senza pause.
Oh bè, si scioglierà, penso, e intanto lasciami leccare l’adrenalina scalda il pubblico e ci proietta tutti in atmosfera molto Afterhours old style con braccia al cielo e cantato stonato annesso da parte del pubblico, ovviamente .
Gli autoctoni Sikitikis vengono invitati sul palco, e fanno una male di miele urlatina anzichenò con Diablo che per l’occasione è stato posseduto dallo Spirito Guida di un Canguro ma il pezzo funziona, la gente canta più di lui (come sia possibile questo è inspiegabile in quanto in natura non pare esistere essere che riesca ad urlare più di Diablo) e Manuel gli fa i controcori, sì, dai.
Diablo va a casa con un bel sette e anche qualcosa di più e io avanzo di due caselle così posso finalmente vedere il frontman o meglio i suoi capelli, si farà vedere in viso giusto due volte in tutta la nottata.
La sottile linea bianca arriva a scardinare certezze, a far male di più e meglio che su disco ed inizierà così la lunga saga dell’atroce sventramento che gli After riescono a compiere nei loro pezzi analizzando l’umano sentire ed entrando a fondo e sottopelle alle dinamiche amorose specialmente come accade per esempio con Sulle labbra.
Vincendo la tentazione di fare harakiri con il mio spillone per capelli riesco a resistere a Quello che non c’è, forse la loro canzone più dolorosa.
Poi tutto si perde e si confonde.
Ricordo una vedova bianca non proprio all’altezza con molte sbavature e anche orrori d’intonazione e lì vedo uno pelato al basso, sono miope, ebbene sì, lo ammetto, ma già così tendo ad escludere che sia Dell’Era colto da un’improvvisa calvizie.
Scoprirò poi, durante la presentazione del gruppo, che: “alla batteria Giorgio Prette, alla chitarra Giorgio Ciccarelli, al violino Rodrigo D’Erasmo, al basso…(ahimè non lo ricordo) e all’ospedale Roberto Dell’Era” e Manuel aggiunge che questa battuta idiota la fa sempre anche se Dell’Era dall’ospedale e già uscito da un po’.
Ma torniamo a noi, o meglio a loro.
In ordine non proprio corretto e me ne scuso, arrivano E’ solo febbre e qui il violino un po’ più sporco di Ciffo si fa rimpiangere un po’ nonostante l’impeccabilità D-Erasmiana, in caduta libera una Bungie Jumping senza elastico e Non è per sempre con immancabile coro da sotto il palco come la dura legge del singolo di successo reclama.
Neppure carne da cannone per Dio e Naufragio nell’isola del tesoro sono più che aspettate e all’altezza come del resto Musa di Nessuno misurata e Ballata per la mia piccola iena che da luogo a un personalissimo e interiore delirio.
Manuel si scioglie un po’ solo dalla seconda parte in poi quando vengono introdotti i Dorian Gray una band locale che suona un proprio pezzo con gli After, a quel punto c’è chi tra il pubblico si lima le unghie e chi si prende una pausa sigaretta, i più optano per una capatina al vicino chiosco spaccio di Ichnusa.
Meno male finisce in fretta e riprende con Tema: la mia città, e il sangue di Giuda che pare stillare nuovamente giù dal palco.
Poi Sui giovani d’oggi ci scatarro su, senza scatarrate a mo’ di lama per fortuna, ma, in compenso, con una variante sul testo “come pararsi il culo e la coscienza è un vero sballo,
sabato C’E’ SANREMO e lunedì al leonkavallo”
Un momento di autoironia e di risposta forse ai molti fans che hanno criticato la loro partecipazione al festival.
Poi una canzone in inglese di non meglio definita provenienza con Manuel al piano, anzi, se qualcuno sapesse, bè, che parlasse e la gente sta male.
Non mi ricordo con che pezzo hanno chiuso questo secondo blocco, credo con Voglio una pelle splendida ma se così fosse ero talmente impegnata a chiedere di salvarmi che non lo so più, ma ricordo benissimo quanto avrei voluto che uscissero di nuovo, almeno per bye bye bombay e ci sono molti modi, ma non ci speravo.
E invece…
Viene fuori Manuel a salutare il pubblico sorseggiando qualcosa a metà tra una birra scura senza schiuma e una 0,40 di vino, ma di questi misteri non c’è dato sapere, e riprende subito con byebye Bombay per l’appunto dove “io, non tremo è solo un po’ di me che se ne va” viene cantata dal pubblico in un enorme cerimonia catartica di liberazione ancora più sentita da chi è isolano e sa cosa vuol dire lasciare un porto.
Poi Manuel si siede al piano e: “è arrivato il crampino delle 11 e mezza, Giorgio non sente la batteria, Dell’Era è all’ospedale ma la vita è meravigliosa” ed attacca una what a wonderful world un tantinello sopra le righe.
Così c’è dato scoprire come Manuel in una stessa sera possa essere annoverato tra i migliori rockers e i peggiori crooners.
Ma rimane al piano, e quasi non ci speravo più, rimane al piano per l’ultimo pezzo, quel pezzo, ci sono molti modi è straziata e straziante, sussurrato e poi gridato, perfino il pubblico è un po’ più muto e tende a non cantare con lui.
Poi se ne vanno e alla minaccia dell’arrivo di un dj locale la spiaggia si svuota.
La sensazione che se ne ha alla fine è quella di un concerto rock sulla spiaggia, non filologico, anche un po’ sbavato, ma comunque curato e abbastanza lungo, (più di due ore) ma sì, in spiaggia ci sta.
Non avevo ancora sentito live D’Erasmo e mi è piaciuto molto, forse anche più pulito e tecnico del suo predecessore (ma… Ciffo, mi manchi!), rammarico per non avere mai sentito live con Gabrielli e mi sarebbe tanto piaciuto sentire e vedere Dell’Era che su palco pare si diverta e diverta.
Peccato per Manuel che comunque non si è concesso poi molto ma, a questo ci aveva già abituati ha gestito comunque il concerto con molta professionalità più che sentimento.
Per il resto la band resiste all’età, resiste alle critiche ed è ancora diverse spanne superiore in live a parecchi colleghi.
Tutto sommato un bel concerto.
“Torneremo scorrere”?
Ebbene sì
E spero presto.

venerdì 15 maggio 2009

Ichnusa

Tu immagina che in tre ore di macchina arrivi da una punta all'altra del sandalo.
E parti dal mare e arrivi al mare.
Il mare è lo status quo, quasi verticale per citare Benvegnù nel senso di muro, ostacolo.
Però è anche la strada, pontos in greco, l'assonanza col passaggio.
E passaggio lo è un'isola, l'isola E' se stessa nel suo inverno di solitudini e di staticità, l'isola è una scelta di vita matura, è l'Itaca che si agogna ed, una volta raggiunta e capita, si deve abbandonare "ma per seguir virtute e canoscenza".
Se non si va, se non esistesse un altrove non si capirebbe l'HIC, non si apprezzerebbe,e, infatti, non lo apprezzo in toto.
Il lungo maestrale invernale, che tutto chiude e tutto spazza e niente intorno.
Mode passate in un altrove di terra ferma s'impongono con prepotenza come fossero una novità.
E chilometri e chilometri nel nulla prima di incotrare un'altra fila di case cadenti.

La differenza dell'isola di Ichnusa sta negli occhi di chi ci vive.
Occhi duri, glaciali, al contrario della terra calda e del sole di mezzogiorno che faceva tenere in casa i bambini d'estate con la minaccia di essere rapiti da "sa mama 'e su sole" bruciante e insolente.
Occhi di chi si è visto sfilare davanti genti, suoni, colori e sapori che non conosceva.
Genti che hanno preso e portato via, lasciando pianure vuote per foreste
comequando si lascia l'amante per tornare alla borghese famiglia perfetta.
E' paura della violenza, del dolore, dell'abbandono di chi poi parte lasciandoti lì a guardare lo scafo che si allontana.
Sono occhi scuri, malinconici, spesso tristi, come gli occhi che osservano un di là che non hanno mai visto.
E poi,
silenzi, chili e chili di (lunghi) silenzi.
Spesso si parla con gli occhi che dicono molto, tutto, troppo e quindi li si abbassa per non farsi rubare l'anima.
La mia rugosa isola, antica come l'inizio del mondo, è un cordone ombelicale che le forbici non tagliano...mai...
Ma da qui molti vanno via, riempendo di cose di qui le case del mondo.
Perchè poi, superata la diffidenza, se si riesce a sostenere quello sguardo di caverna, poi è tutto più semplici e si diventa amici, fratelli, ospiti.
La sacralità dell'ospite di Iliaca memoria.
E lui sarà tutto, il tuo tutto, quando ci si dà non esiste farlo a metà o in parte, si da. E basta.
Ma il cuore no, il cuore è una cosa sacra e si affida piano e con garbo, tu puoi dirti amico ma l’anima è volatile ed inafferrabile.
Per ogni Shardana in giro per il mondo, novello Ulisse, c'è una Penelope che tesse una tela lunga quanto il mondo, una Penelope, madre, padre, amica o amante.
E l'Ulisse, lì, anelerà sempre alla sua Itaca, sognandola e bramandola, quella sua arcadia, che ha sempre un po' di poesia in più filtrata dalla lontananza.
Poi, una volta lì, stringe le mani a tutti, li guarda con i suoi occhi duri ma abbagliati da altre viste, da altro Bello, da altri mondi e arma le navi per ripartire.

giovedì 26 febbraio 2009

Un amore del nostro tempo

Quest'uomo sapeva scrivere.
Di fronte a tale padronanza della parola molti scrittori nostrani dovrebbero fare un mea culpa cospargersi il capo di cenere (che è pure il periodo buono) e consegnare la penna finchè non perdono un po' di boria.
A parte gli scherzi, questo libro non è come la biere nei confronti del quale l'identificazione del lettore è, per certi versi, immediata.
Questo libro è scomodo, se non fosse per la filosofia della felicità, della libertà individuale v/s leggi umane, della teoria dell'uomo animale sociale di cui è intriso, specialmente nella parte finale, sarebbe molto difficile arrivare in fondo.
Questa teoria ricorda il leggi umane/diritto naturale o divino di Sofoclea memoria (per la precisione mi riferisco al mito di Antigone) ma questa volta il ribaltamento è ancora più assurdo perchè la coppia incestuosa va a sfidare sia le leggi di stato sia le leggi naturali/divine, anzi, se si vuole più marcatamente queste ultime, a favore di una legge, quella dell'amore che non pare però trovare altra via che quella della fuga.
Il rimorso, la possibilità, il dolore, il ritorno.
E' difficile anche stare totalmente dalla parte dei due, anche capirli e accettarli, pur nell'ambito della finzone letteraria è inevitabile non immedesimarsi in qualche modo in un romanzo e qui è quantomeno difficile, un po' per educazione,un po' per istinto di conservazione della società umana.
E' un libro scomodo, non aprezzato particolarmente neanche dai "fans" di Landolfi del periodo che lo hanno accusato di Dannunzianesimo e di esagerare le sue ben note qualità a favore di un manierismo tracotante.
E, sempre dalla postfazione, apprendo che questo libro ha visto la ristampa solo nel 1992.
Può anche darsi che non sia l'acmè scrittorio di Landolfi, ma, e a pensar male ci si azzecca sempre, qualcosa mi dice che l'Italia democristiana, catoniana e perbenista della ricostruzione postbellica non apprezzasse particolarmente l'argmento trattato anche perchè c'è una sorta di happy end, non personale ma, che è peggio, sociale.
Il riconoscimento civile, seppur celato e non diretto alla coppia è comunque inaccettabile, per allora e anche per ora, nonostante Landolfi indori la pillola con l'introduzione in finale della parola "peccato" che non appare mai nel resto del libro se non per essere immediatamente considerata nulla.
Considerazione di contenuto a parte è un libro duro per contenuto e ostico per lessico e scrittura, ma Landolfi rappresenta la vetta naturale della possibilità di dire in lingua italiana e a me non resta altro che divorarlo tutto avidamente.

Un amore del nostro tempo
Di Tommaso Landolfi, Idolina Landolfi (Curatore)
Adelphi (Biblioteca, 265), 1993

lunedì 23 febbraio 2009

Ben Vegnù

Gio 19 Feb – Paolo Benvegnù: Cinema, Siniscola
Siniscola è un ridente borgo marino sulla costa orientale sarda, d'estate paradiso del bagnante che vuole la tranquillità ad un tiro di schioppo dalle luci della costa Smeralda, d'inverno surrogato di noia come solo la Sadegna costiera invernale riesce ad essere.
Mi è parso dunque strano sapere di un concerto di Paolo Benvegnù proprio lì, ma gli eventi sono eventi e a Benvegnù non si può rinunciare, scoprendo di non poter proprio esserci alla data di Cagliari mi faccio i miei 200 e passa km per arrivare a Siniscola.
Il locale è semivuoto quando Paolo e la band entrano e il poco pubblico che c'è mi pare, tra l'altro, parecchio disinteressato.
Meglio, mi godrò il concerto in intimità, come se suonassero solo per me, come se gli strali di Paolo arrivassero a dilanare solo a mia anima, in una egoistica prosecuzione della mia cameretta.
Ma non c'è il cd nello stereo, a cantare è proprio il Benvegnù in carne e ossa e me ne accorgo subito, il suo carisma riempie il locale già prima che proferisca verbo e non appena intona "tutti i respiri che hai..." il cuore si ferma un po' e "La Schiena" è scavata da più di un brivido.
Paolo sarà impeccabile, lo capisco dal primo istante e si schermisce ringraziando le 5 (di numero!!!) persone che sono arrivate lì a sentirlo.
Si presenta, e mi pare surreale, e mi pare anche surreale che debba spiegare chi è, con l'umiltà del leader del gruppetto delle cantine al suo primo concerto, forse cosciente del pubblico che ha di fronte ma da questo per niente disturbato e aggiunge "noi siamo noti per fare delle canzoni straordinariamente tristi ma in realtà siamo dei buontemponi."
Continua con "La peste" e lì mi accorgo che Paolo ha una signora band di eccezionali polistrumentisti, poi è il momento de "l'ultimo assalto" eseguito con la dignità di un Napoleone nella sua Waterloo di Eros e Venere.
Ma è su "La distanza" che si ha il crollo emotivo vero e proprio (o perlomeno a me succede) un po' urlata, sbattuta, soffocata e sottolineata da un suono più marcatamente rock, da far aprire gli occhi e la bocca in un dolore sublimato ed estatico.
Continua con i pezzi Le labbra, fa, più o meno nell'ordine, "1784", "interno notte", "amore santo e blasfemo", alternando momenti di sublime delicatezza e altri un po' più duri, suona ad occhi chiusi senza neanche una sbavatura, nonostante gli avventori che sbevazzano al bancone con le loro voci tentino di superare il volume degli strumenti, e mi chiedo come si faccia a non bloccarsi, a non fermare qualsiasi attività umana, come fanno le orecchie a non essere trafitte e a voltarsi colmi d'ammirazione, come succede davanti al Bello in qualsiasi sua forma.
Mi accorgo che live questo "concept album" , come è stato definito da un'amica, dell'amore non corrisposto, doloroso, rifiutato e triste, ma non per questo meno vitale e palpabile, diventa straordinariamenrte carnale e variabile.
Ma "adesso facciamo una pausa con le canzoni tristi e ne facciamo due un po' più...un pochino meno tristi, ma dopo torneremo nella tristezza sconfinata." dice Paolo e attacca con una "cerchi nell'acqua" spettacolare seguita da "Il mare verticale".
Finisce "Le labbra" con "il nemico" e "Jeremy" e forse qualche altra, è difficile ricordare quando si è persi in se stessi perchè un esterno canta parole così reali accompagnate da una musica che le incanala dritte allo stomaco.
Ma ora molto è tratto da "Piccoli fragilissimi film" , "fiamme", "il sentimento delle cose" e su "Suggestionabili" parte il delirio.
Da questo momento il concerto prende una piega altra, si raggiungono vette musicale notevoli crossando i generi più diversi, dalla classica del violoncello al rock duro con tanto di mossette e corna al cielo.
Poi ad un certo punto si arriva a parlare di politica e della triste situazione che ci troviamo a vivere e nello specifico l'esito delle nostre regionali,
l'esecuzione di "Sintesi di un modello matematico" è attesa più che ipotizzata.
Poi presenta la band di Sosia definendo se stesso il sosia di Raimondo Vianello.
Ed è durante il bis che parte il siparietto su Sanremo dove il bassista e voce diventa il Pupo di gelato al cioccolato, il batterista un Belli afono più che mai e Benvegnù si limita a interpretare "quel povero cristo che chissà quanto l'hanno pagato" in una versione che francamente pareva più sudtirolese che africana.
E a sorpresa parte Simmetrie a ricordare quegli Scisma che sembrano lontani una vita ma che risalgono alle labbra quasi di ritorno dalla loro sepoltura di oblio.
E quando finisce Paolo dice "Grazie Pupo per averci donato questa canzone" ridiamo in due.
Qualcuno la sta ancora cercando tra la discografia del cantante paccaro...
Finisce così uno dei concerti più surreali ma anche più empatici della mia vita dove a volte, guardandomi intorno ho avuto la percezione della splendida decadenza, della nobiltà del cantante sul palco che si donava senza risparmiarsi, perfetto, e il mondo intorno continuava a girare beato, musica di sottofondo, come in un chiosco su una spiaggia negli anni '60.
Fa una presentazione, ora reale, del gruppo, salvo poi chiamare se stesso il cantante dei camaleonti.
E poi "Accoppiamoci! Accoppiatevi se potete e se volete anche con noi".
Un concerto che scarnifica, che lascia nudi ma puliti, catartico come un'antica tragedia greca di amore e morte,
- Paolo, le labbra...
- ...sono solo canzoni...
Non per chi le riceve, non per chi le ha avute così, regalo inaspettato, come quando da piccoli qualcuno ti diceva apri la mano e ti posava sul palmo una farfalla catturata, immensamente bella, ma già quasi finita.

lunedì 19 gennaio 2009

Ta Daaaaa

Dom 18 Gen – Vinicio Capossela: Teatro Lirico, Cagliari
L'unica cosa che rimane dopo due ore e mezza di concerto è la sensazione di volerne ancora e ancora.
Uno spettacolo per orecchie ma anche per occhi.
Ma andiamo con ordine...
Davanti alla porta del teatro Christopher Wonder e la sua assistente invitano gli spettatori ad entrare, fanno giochi di prestigio, intrattengono la folla.
Non si era mai visto, so che sarà "magico".
Otto e trenta, forse è il caso di salire, m'immergo già nella poetica viniciana, il Lirico non lo ricordavo così labirintico.
L'attesa cresce,ho aspettative sì, le ho coltivate con cognizione di causa, finalmente le porte si chiudono e le luci si abbassano.
Wonder va in giro per la platea sui trampoli e annuncia tra tutte le attrazioni "mistr Vinniccio Capossla!".
Su il sipario.
Inizia l'intro de "il gigante e il mago", non ci tratteniamo, boato in sala.
La scenografia è pazzesca, mezzo circo di frontiera e mezzo festa del patrono di paese.
Vinicio sta in piedi di fronte ad un organo illuminato di blu, giacca nera e cilindro, sotto, in nostro onore, una t-shirt coi quattro mori.
Si accende il palco ad illuminare i musicisti, ottoni sullo sfondo vestiti a guisa di soldatini di piombo, l'esercito dell salvezza, il mago del teremin, Vince, fagocitato dai mac, un batterista guardorobiere e l'immancabile "Asso" polistrumentista delle corde.
Saluta Vinicio, abbozza uno pseudosardo,ci racconta il concerto, saranno due parti.
Nella prima sarà Da Solo a farla da padrone poi ci sarà un siparietto di Cristopher e la seconda parte con pezzi "datati".
Fibrillazione.
Ci dice che l'ultimo è un album introspettivo e le canzoni sono fatte per stare all'impiedi di fronte alle brutte sorprese della vita, infatti li eseguirà da...seduto.
Nella prima parte, è dunque "da solo" a farla da padrone, Vinicio e il suo pianoforte accompagnato con discrezione dalla band esegue i pezzi del perduto amor e della solitudine, in ordine di traccia, "in clandestinità" e "parla piano" l'una dietro l'altra, i dolori dell'animo umano che ognuno sente un po' suoi, intimi.
Nessuno canta se non mormorii appena sussurrati, tanto da sembrare un rosario sgranato tra sè e sè, quando si dice religioso silenzio.
Vinicio è impeccabile e perfetto, solo il piano è illuminato, i musicisti stanno in penombra, coscenziosi operai, moire che tessono le fila ma invisibli all'occhio umano.
Scrosci di applausi a far trasalire, a ricordarmi che in sala non siamo solo, io, lui e il piano.
Cambia cappello Vinicio e indossa una paglietta anni '40 suona allegro, "una giornata perfetta" lui è il nostro Vic Damone, poi, si fa piccino, siede di fronte ad una minuscola pianolina carillon e inizia a raccontare che nel mondo certe cose sono nate per stare in coppia, che da sole non riescono a esistere.
A volte una coppia scoppiata si ritrova dopo molto tempo, a volte, tristemente, non si ritrova mai.
Così succede alle scarpe, ai guanti e, soprattutto ai calzini.
Dopo questa presentazione da staccarsi un arto a morsi per il dolore, qualcuno in sala, e gruppetti numerosi anche, scoppiano in una sonora risata e mano a mano che la canzone scorre ancora di più.
A quel punto mi credo quali meravigliosi meccanismi di fraintendimento nascano nel cervello umano, ma questo non importa, stasera niente importa.
E' il momento della perla di "da solo": "orfani ora" e di nuovo, finalmente tutto tace, (forse la parola orfano è più chiara della metafora podale).
Stupendo Vinicio, canta come in estasi, è in stato di grazia, lo ammetterà lui stesso più tardi.
E' ora di cambiare continente, la provincia americana e il suo soporifero decadentismo aspettano.
L'inizio di "Vetri appannati d'America" più a luce ad illuminare gli ottoni che tornano dal fronte è accompagnato dalla marcia di un soldato che porta la bandiera a stelle e strisce.
E poi buio di nuovo e sembra di stare nel Mississipi in uno scantinato che odora di alcool e chiuso invaso dalle zanzare, mentre l'unica lampadina ondeggia sulla testa di Vinicio che schivandola canta "dalla parte della sera" e si alza poi e imbraccia la chitarra, e parte "la faccia della terra", pezzo scritto coi Calexico.
Ed è su "lettera ai soldati" dedicata alle vittime recenti dell'eccidio di stato di Gaza che ritorna al piano per eseguirla, carica e perfetta da far urlare di liberazione i condotti lacrimali.
Poi è un armonio a concludere la prima parte mentre la voce roca di Vinicio canta "Non c'è disaccordo nel cielo" sulle note di Lehman.
Vinicio ringrazia dopo ogni pezzo, il pubblico è entusiasta, estatico come si è davanti alle cose belle ma si va avanti il baraccone deve nuoversi e via un quarto d'ora con i surreali giochi di prestigio di Wonder conclusi tutti con la frase Ta Da (che ha però tatuata sull'addome) e che mostra al momento dell'applauso.
Ma è solo un attimo, una sirena a manovella annuncia la seconda parte, che il circo abbia inizio, saranno tanti gli animali mitologici che si susseguiranno ma ancora non è tempo.
Tutto sarà scandito da due sillabe ta daa.
Vinicio ha un enorme colbacco da Ussaro (?) e si siede al piano dedicando questa canzone a noi che "se non stiamo attenti rischieremo di mangiare tanti "Cappellacci" al cemento armato e al suo Gran Visir che muove le fila del gioco accompagnandolo dovunque a spese nostre.
Su Marajà saltiamo in aria.
E poi il buon Vinicio fa un omaggio floreale "con una rosa" è splendida e partecipata.
Poi è tutto un susseguirsi di attrazioni e citazioni, di giochi e musiche di personaggi.
Vinicio dice che per la seconda parte, quella circense, bisogna esser pronti e così fa ginnastica ma...
Parla in russo.
Declama i versi di Vysotskij, ah la ginnastica del pugile sentimentale, e si ritrova in gabbia, come tutti i potenti cercano di fare costruendoci le gabbie mentre pensiamo al corpo.
Poi è Bardamù con uno yorkshire vestito da leone ad entrare in scena insieme a Christopher domatore perchè "ogni animale in gabbia diventa un leone" e da lì una maschera da scimmia col berretto rosso a ricordare i musici di strada e la gabbia diventa luogo per la medusa e il suo forsennato cha cha cha.
Vinicio canta attraverso la maschera e la sinuosa medusa danza e ammicca accompagnata dagli acuti del teremin.
Ed è la volta di canzone a manovella con tato di palombaro e un inedito Vinicio sirenetta che si cimenta in una danza.
Rientra in gabbia con mosse da cacciatore ma, armato di chitarra per chiedersi che coss'è l'amor" mentre si fatica a stare seduti per la voglia di ballare inizia un twist, è il gambale twist, in sardo e ad un certo punto entra nella gabbia con le sbarre illuminate Benito Urgu, inventore del suddetto ballo.
Cantano è divertente e...Benito sembra non volersene andare dal palco.
Ma si deve ancora andare avanti, Vinicio viene a chiacchierare e introduce l'uman pignatta, il mago come Houdini in camicia di forza legato in alto, per i piedi, ma condannato a essere la pentolaccia "giacchè è sant'Antonio abate".
E lì festa canti, in piedi a ballare per l'uomo vivo (che intanto sta a testa in giù a prenderle di santa ragione).
E' una cosa spaventosa vista da fuori, gio-gio-ia e giù botte, ma c'è il riscatto?
Dipende...
Habet hoc, il colosseo vuole la grazia per l'uman pignatta?
Lo accompagna fuori e in sala si fa buio, lo sappiamo già, lo sentiamo...
"Eccola viene..."
Vinicio vestito da Minotauro sardopellita con la lignea maschera da Boe di Ottana, la pelle e le campane del Mammutone di Mamoiada, un animale mitologico che impersona un animale mitologico.
Il minotauro canta "brucia troia" così dietro la maschera e dentro la gabbia, si arrampica e sbuffa.
Finisce e giù il sipario.
Durante questa seconda parte Vinicio dimentica spesso le parole e inverte i ritornelli ma si riprende subito, poco male, la magia che è stata creata può ben sopperire a qualche "canzone a manovella" detto a caso in mezzo al pezzo o "ad appoggiarsi sempre volentieri" senza mai "volteggiare tutto crocco" quando non si sa cos'è l'amore, ripeto, poco male davvero...
Aspettiamo il bis, urliamo, chiamiamo, applaudiamo, ma è il minotauro ad uscire e a catturare due persone del pubblico.
l sipario si apre quasi subito, ecco, ora ad essere in gabbia sono i due poveri malcapitati,
Più che di un bis però si tratta proprio di una terza parte dedicata alla Sardegna stavolta.
Prima una poesia in sardo, poi la traduce in italiano e lì dice che la Sardegna gli ricorda il west perciò è addobbato da cow boy e poi è stanco e perduto.
Omaggia De Andrè che tanto aveva amato queste terre con la "città vecchia" e finisce presentando i musici con "all'una e trentacinque circa".
Finito, ora davvero però, è mezzanotte ma non ne avevo abbastanza.
Anche se ogni concerto di Vinicio è uno spettacolo questo forse è stato il più bello sia per qualità che per coinvolgimento.
Esecuzioni impeccabili e cura per ogni dettaglio.
Uno spettacolo fatto affinchè fosse una gioia dei sensi.
Mi scuso se ho diimenticato qualcosa ma sono stata davvero molto coinvolta.
Sono uscita con gli occhi sgranati, perduta in un vortice di meraviglia, continuando a ripetere TA DA con un sorriso ebete stampato in faccia.
La gioia dei bambini all'uscita del circo.

domenica 18 gennaio 2009

Preferisco rimanere un'impressione

Le canzoni di Vinicio Capossela, il poeta ubriaco del Chiavicone, stanco e perduto, prendono vita in questo libro.
Tutti i personaggi si creano e si celebrano ed ampliano la loro esistenza oltre i 3 minuti e mezzo medi di una canzone, arrivano, a tutto tondo.
Così scopriamo i retroscena dell'amicizia con Nutless, la poetica del Chiavicone, i Balcani in Volvo, la clandestinità dei Motel e Stanbul il Ponte.
Per quanto sia interessante nel contesto della compresione e della visione della poetica Caposseliana, il libro pecca un po' per eccesso.
Prolisso e verboso perlopiù, non malscritto ma ridondante e roccocò.
Ci sono dei capitoli che accendono il desiderio di un canto antico come il suono dei Balcani o della Grecia, altri stanchi e perduti, altri abbacinano per la reatà dell'umano che abbracciano, altri, molti, perfettamente inutili.
C'è quasi dappertutto una piccola perla sparsa un cammeo riconoscibile, una specie di sphragis che fa dire "questo lo conosco" e sorridendo, riporta a una melodia.
Nelle radiocapitolazioni scorre di più e meglio, non foss'altro perchè Vinicio scrive come canta, rapsodo post-moderno.
Altro neo è che forse l'idea del romanzo unitario è un po' ambiziosa, volendo demolire lo schema narrativo si rischia solo di perdersi in pensieri non associativi ma, apparentemente, incoerenti.
"Vanescio, ma che coss'è l'amore?"
Amore è aver finito questo libro d'un fiato nonostante la pesantezza oggettiva e la, purtroppo, poca coerenza interna.

mercoledì 14 gennaio 2009

Io sono un Poeta, io sono Dio

C'era un uomo che le antologie italiane, ma solo le migliori, citano e basta.
C'era uno scrittore che in America cenava con Wiliams ed Henriette Monroe, poteva permettersi di snobbare Lee Masters ma faceva il lavapiatti.
In pochi sanno che è esistito e a Clementi va il merito di averlo resuscitato.
Emanuel Carnevali, il cantore delle camere ammobiliate, il poeta delle donne di scorta, il dio delle strade dell'American dream.
Fare un commento unitario a questo libro è pressocchè impossibile anche perchè già di per se è diviso in più parti.
Il romanzo "il primo dio" è un viaggio agli inferi ma il Carnevali, che all'inizio ci fa da Virgilio perde a poco a poco la sua dimensione di guida per diventare esso stesso anima dannata che racconta.
Anche la scrittura cambia, dalle frasi brevi e frammentate della prima parte si passa, mano a mano che aumenta l'età anagrafica ad una maggiore articolazione dello stile.
E la malattia, quest'insondabile stato che in qualche modo gli appartiene come stato d'animo più che come stato fisico e l'abbandono...
"Io sono un poeta, io sono dio", questo il leitmotiv della sua vita, perchè poeta lo era Em, e non aveva vergogna di dirlo per falsa modestia; se ne gonfiava il petto per poi urlarlo alle sponde dei fiumi delle sue città adottive, e la sua poesia era quello che lo divinizzava, senza non avrebbe potuto "essere".
Nelle sue poesie, raccolte nella seconda parte, c'è tutta la forza delle radici di un apolide.
Un mix tra gli americani suoi contemporanei e gli amati francesi pensati da un Italiano.
Nella descrizione dei luoghi parla di tutti ma nessuno a cui appartenere, l'America che è nota da sempre e un'Italia mai vista.
E poi c'è il critico letterario, lucido nella sua delirante prosa, non teme neanche i mostri sacri Emanuel e demolisce in modo totale e spregiudicato Pound oppure è capace di infinita stima e ammirazione come nel caso di Rimbaud.
Quella che rimane è la sensazione di avere tra le mani un piccolo capolavoro ma in nuce, una personalità fuori dagli schemi, la sensazione di un cerino che si è consumato troppo in fretta, prima di riuscire ad accendere la candela.

Il primo Dio
Il primo Dio - Poesie scelte - Racconti e scritti critici
Di Emanuel Carnevali, Maria Pia Carnevali (Curatore), Luigi Ballerini (Collaboratore)
Adelphi (Biblioteca, 81, 1978

mercoledì 7 gennaio 2009

Io comincio a far poesie quando la partita è perduta

Cesare Pavese e la sua vita, ma non quella raccontata, quella del confino e della gloria, non la vita dell'intellettuale, del Genio ma,
la vita di Cesare-Uomo, prestato alla scrittura, regalato ad eternare l'umanità e la natura, generosamente narratore, grazie ai Numi Poeta, professione: vivente.
Sono paradossalmente contenta di aver letto questo libro tardi, l'ho letto, non da solo, alternato ad altro perché l'enormità della sua essenza andava centellinata e disciolta, (quando stai male prendi la medicina ad intervalli regolari, sarebbe da idioti consumare la boccetta tutta assieme, non sortirebbe alcun effetto), ho vinto la mia naturale bulimia lettoria per poter godere di ogni singola parola.
Del mal d'amore si sa, è così universalmente comprensibile, fatto salvo per una più o meno frustrata misoginia, più una difesa che realtà a quanto sembra, ma è l'entrare nel vivo del procedere della scrittura, delle sue ellissi, partecipare all'archè e all'evoluzione di quei romanzi, di quelle poesie, che tanto si è costretti ad amare una volta scoperti, sviscerarne il background, capirne le storie e la Storia è un modo sicuro per non poterne più a fare a meno.
Mi sono persa in un pozzo di cultura, a partire dalle teorizzazioni sul mito, nei grandi temi della letteratura, nella poetica e nelle scelte non solo estetiche, ora so cos'è il Simbolo e i suoi perché.
Ma quel che più conta è l'essere entrata a contatto con l'anima e le sue vicende, il disagio di vivere, di Essere, l'Amore e la Morte, mi sono bevuta ogni singola pillola di vita confrontandola con ciò che mi è noto e crudamente riconoscendomi in essa.
E quella fine, così ineluttabile, razionale, eticamente giustificata, il dolore che si prova nel leggere in data 18 agosto 1950
"Non parole.Un gesto.Non scriverò più".
La vera morte del poeta è questa, smettere di esistere nella scrittura immanente conscio (o no?) di essere eternato dalle sue stesse parole .

Il mestiere di vivere
Diario 1935-1950
Di Cesare Pavese, Marziano Guglielminetti (Curatore), Laura Nay (Curatore)
Einaudi ET, 2000