Lun 20 Lug – Franco Battiato: Notti mediterranee: Anfiteatro Romano, Cagliari
Le cose belle, quelle straordinariamente belle, sono quelle che non ci si aspetta, anche se si tenta di preventivarle, anche se grazie a quello che si è già vissuto le si può immaginare.
Così mi sentivo io fuori dai cancelli, quasi sovrappensiero, ma meno male non mi sono perduta anche perché la folla fa quello che deve fare ti adotta lei quando tu non hai la coscienza dell’andare quando però ti rimane a percezione che quello che stai per vivere è un’esperienza che conosci ma che ogni volta riesce ad essere nuova e magica.
In fondo si trattava pur sempre di un concerto di Franco Battiato e se ci aggiungiamo una location come quella dell’Anfiteatro Romano di Cagliari e un maestrale leggero leggero da spazzare l’afa pesante dell’aria estiva avevo ben ragione di avere alte aspettative.
La cosa più brutta delle grandi aspettative è che non si risolvono nel modo in cui, appunto, ci si aspetta ed è andata così anche stavolta, infatti è stato meglio, molto meglio.
Provare a parlarne non è impresa semplice: avete mai provato, da bambini, a sforzarvi di spiegare, con parole compiute, l’eccitazione all’altezza dello stomaco che si prova a tentare di afferrare la polvere che galleggia nei raggi di sole che entrano dalle finestre e non riuscire a prenderli?
Ecco, più o meno una cosa del genere.
Quindi tenterò di limitarmi al concerto vero e proprio per quanto sia possibile scindere una cosa che poi diventa così intima nella sua evoluzione, ma credo che sia sensazione comune tutta questa intimità.
Il costo dei biglietti, non dico proibitivo ma quasi, ha fatto in modo che l’età media del pubblico si aggirasse attorno al mezzo secolo, contando che gli ottantenni erano ben rappresentati, è facile constatare che la popolazione giovanile c’era comunque e anche che l’Anfiteatro non fosse zeppo come nelle grandi occasioni. Il pubblico, però, si sarebbe rivelato attento, partecipe e anche troppo vivo.
Noi, abbastanza abituate a ben altre folle, abbiamo fatto fruttare il nostro biglietto non numerato nel posto migliore che si potesse sperare (nonostante le mie perplessità iniziali…dovrei fidarmi di chi ne sa più di me una volta in più) per vedere un concerto di altissimo livello nel migliore dei modi possibili.
Più o meno alle nove e mezzo vengono annunciate le Lilies of Mars, spin-off delle Mab formato dalle chitarriste più un dj e un batterista (nota di “colore” non richiesta la rastona bionda adesso ha i capelli di un vivo verde-elfo-smeraldato). Bene, le mie conterranee mi stanno simpatiche, sono brave perfino, ma l’ascolto prolungato, specialmente in questa versione mi provoca uno smerigliamento tale da equivalersi ad un “breve invito ad ACCELERARE il suicidio” fanno quattro pezzi di lamenti in diretta dalla Terra di Mezzo e poi finalmente giù le luci e…
E adesso s’inizia veramente, adesso è il momento, potrei anche sorridere da sola ad immaginare l’entrata mentre i tecnici preparano il palco nella semi oscurità tanto che qualcuno grida “ e accendetegliela una luce mischinetti ‘tta ‘gà”, segno evidente che la provenienza del pubblico è trasversale e percorre tutta l’isola.
Entrano per primi il Quartetto Italiano d’Archi, il pianista e il tastierista multitasking con strumentazione da cyber punk musicofilo tutti assolutamente vestiti di nero, e il chitarrista Davide Ferrario, biancovestito e apparentemente scisso dal contesto.
Ma è all’entrata del Maestro che il pubblico si scalda per davvero sciogliendosi in interminabile applauso: “ci siamo” penso “ ci siamo…” mentre Battiato profondendosi in inchini e sorrisi guadagna la sua posizione seduto sopra un piccolo piano rialzato ricoperto da un tappeto orientale, aspetta che scemino gli applausi e dice: “il pubblico delle isole è sempre il più caloroso”.
Conquistati.
Con niente.
Ah, come lo conosci bene il pubblico delle isole Franco, sai bene che basta ricordargli la loro insularità, ergo differenza sentita come un complimento, per farli andare in visibilio; è un uomo di spettacolo, certo che lo sa, e la sua grande esperienza verrà fuori in più di un’occasione durante la serata.
Niente di meglio in questa situazione se non iniziare con un HAIKU delicato, giocato con suoni che rimangono sussurrati ma chiari e netti, come un breve Haiku giapponese appunto, il pubblico è già in visibilio ma è solo l’inizio dell’inizio.
Dice che alcune canzoni le fa rarissimamente ma gli piace variare il repertorio e ha scelto NO TIME, NO SPACE, non poteva farci regalo migliore, gli effetti e le tastiere arrivano al massimo sottolineata dagli archi che danno volatilità ad un ritornello da Odissea nello spazio, L’INCANTESIMO a seguire in un atmosfera più che onirica e LA QUIETE DOPO UN ADDIO da quel Ferro Battuto che temevo non accennasse neanche.
Lu Mastru è ispirato, siede sul tappeto come un poeta arabo da Mille e una Notte, beve alla nostra salute, canta, intrattiene e si accompagna danzando con le mani, tutto è molto ipnotico e coinvolgente ma sa anche cambiare repentinamente con un suono più marcato e sintetico, con una chitarra più presente parte UN’ALTRA VITA.
Poi sfoglia un “fiore” uno dei numero due “perché mi piaceva l’idea di tornare indietro così spero conclusa questa trilogia” e canta il pezzo che fu di Dalida: Il Venait D'avoir 18 Ans e a seguire un altro E Più TI AMO tutte molto sentite e partecipate anche dal pubblico che raggiunge il suo culmine con la pregevole cover di Endrigo ERA D’ESTATE che esalta con un arrangiamento battitaesco quello che già era un grande pezzo e poi LA CANZONE DEI VECCHI AMANTI a chiudere il bouquet.
Si torna nell’attualità con una POVERA PATRIA che viene accolta con una cascata di applausi così armonicamente ariosa contrastante con il testo pesante e contundente in cui la parte del leone la fanno gli archi con il loro retrogusto malinconico, poi una STAGE DOORS da far digrignare le anime e va a stemperare con IT’S FIVE O’CLOCK, sorridente.
Tocca poi impegnarsi con TIBET il pezzo inedito ispirato appunto alla questione Cina - Tibet e racconta che lui è stato invitato ad esibirsi in piazza Tienanmen ma non sa se lo vorranno ancora dopo questo pezzo, non lo conoscevo, il brano è carino, con una bella voce femminile, piano e mac suppongo, oltre agli immancabili archi.
Arriva anche il momento musicalmente epicizzante di TRA SESSO E CASTITA che declina nel puro brivido quando parte L’OMBRA DELLE LUCE e il suo misticismo che cattura a prescindere dal sentire di ognuno sull’argomento e continuando con LODE ALL’INVIOLATO dove la chitarra di Ferrario trova una collocazione più netta.
Ma l’acmè arriva quando Battiato si alza in piedi per cantare forse la sua più dolorosa, la più inflazionata anche, quindi non mi aspettavo che a quell’attacco d’archi mi si inumidissero gli occhi, LA CURA è stata perfetta e ho capito anche perché nonostante tutto e tutti coinvolga così tanto, se non perché è essa stessa un brano perfetto.
Immediatamente successiva CAFE’ DE LA PAIX ottunde i sensi e da un sapore speziato all’attesa di quel tè, mentre per i TRENI DI TOZEUR ci regala un aneddoto su un arabo che capiva solo il siciliano, pare divertirsi Franco e regge il palco come solo un artista della sua caratura potrebbe fare, è seduto, muove solo le mani, ma è impeccabile ed emana un carisma che catalizza.
Continua all’insegna di un progressivo tentativo di “alleggerimento” i ritmi si fanno più sostenuti, i cambi più marcati, i campionamenti e le tastiere più presenti, scorre LA STAGIONE DELL’AMORE e subito a rincorrerla una più pacata E TI VENGO A CERCARE così abbinate quasi a raccontare le dietrologie d’amore a seguire una STRANIZZA D’AMURI richiesta dal pubblico frutto di un “compromesso sindacale” tra il Maestro e i musicisti.
Ecco, una cosa che non sopporto proprio è quella di pensare il cantante sul palco come un juke box, vedrà lui cosa fare e come farla se no te ne stai a casetta e ti scegli la traccia dall’I-Pod.
Un’inaspettata MAGIC SHOP sempre eseguita in piedi manda comprensibilmente in visibilio l’anfiteatro e a chiudere l’immancabile singolo TUTTO L’UNIVERSO OBBEDISCE ALL’AMORE versione iperpop con tanto di ballettino.
Così Battiato s’inchina al suo pubblico dopo un’ora e mezza di spettacolo che pare volata tant’è che chiedo alla mia amica come mai avesse suonato così poco, ho perso completamente la cognizione del tempo e manca ancora tutto il Bis.
Il pubblico ha applaudito a lungo per ogni canzone, ci sono state anche le dichiarazioni d’amore da parte di qualche signora in platea e anche qualche altra, magari un po’ più interiore e assolutamente platonica.
Ma ri-escono i musicisti e ri-esce Battiato è il momento delle danze, inizia con SUMMER ON A SOLITARY BEACH estiva e fresca nella sua malinconia e a seguire un omaggio a Giuni Russo con un pezzo che aveva scritto per lei e ora campeggia tra i Fleurs: L’ADDIO e sempre per un altro grande, il più grande di tutti, un altro omaggio, c’è quella versione di INVERNO di De Andrè che tanto avevo apprezzato al tributo a lui dedicato da Fazio e per la quale, io, logorroica, ho finito le parole.
Ma poi l’atmosfera cambia, gli archi si fanno più consistenti e incisivi, le tastiere e i campionamenti acquisiscono ritmo e anche Ferrario che trova finalmente una giustificazione nel suo dimenarsi come se suonasse nei Ramones, L’ERA DEL CINGHIALE BIANCO è un delirio di suoni e già dall’incipit “Pieni gli alberghi a Cagliari per le vacanze estive” fa sì che sì che il pubblico vada completamente in visibilio.
Esce di nuovo e qualche sveglione, anzi molti, decidono di alzare i tacchi rischiando di far saltare il secondo bis che meno male buona parte del pubblico ancora chiedeva.
E allora di nuovo tutti fuori per una PROSPETTIA NEVSKI che porta un po’ di refrigerio e anche un po’ di autocompiacimento quando fa cantare al pubblico “e il mio maestro m’insegnò com’è difficile trovare l’alba dentro l’imbrunire” ma è disponibile e allegro, stringe mani, prende regali e con VOGLIO VEDERTI DANZARE trasforma l’autorevole anfiteatro romano in un’enorme festa danzereccia ballando anche lui con un’agilità sorprendente e facendo alzare anche la platea ottuagenaria in un quasi pogo esaltato.
Pare chiudere con L’ANIMALE, pare che sia tutto finito ma altro giro, altra corsa, CUCCURUCCUCU’ in coro col pubblico in piedi, danzante, felice, appagato, l’estasi collettiva della festa, “ma non posso lasciarvi così” dice e chiede al suo pianista un do maggiore per farci cantare quel ritornello da Vespa morettina, proprio quel CENTRO DI GRAVITA’ PERMANENTE con cui ci saluta e per davvero.
La sensazione che si ha all’uscita, nonostante il rammarico per quel pezzo che avresti voluto sentire e invece non c’è stato, è quella di avere assistito ad un grande evento, curato, perfetto in ogni dettaglio, catalizzante ed emozionante.
Lui, un grande maestro di cerimonia, perfettamente a suo agio nel tenere il palco e l’attenzione catalizzata su di sé, si permette delle sviolinate altissime e un repertorio, pregno e intenso prima che va a scemare nelle hits poi, senza sbagliare un colpo tenendo perfettamente le fila come in un racconto unitario, sempre perfetto nei tempi, nelle intonazioni nei piccoli gesti, curatissimi come una perfomance di teatro Kabuki.
Un concerto di Battiato è fatto indescrivibile e anche provandoci le parole non bastano mai, certe cose non si spiegano, non è giusto, si possono solo tentare di raccontare nel modo più lineare piano e possibile, per la cronaca, così, senza pretesa alcuna, solo con l’augurio che accada di nuovo e all’improvviso.
Nessun commento:
Posta un commento