mercoledì 30 giugno 2010

… per mezza Toscana si spazia/ un fiumicel che nasce in Falterona/ e cento miglia di corso nol sazia. (Firenze)

Perché una città esista c'è bisogno di un fiume altrimenti può anche decidere di smettere di chiamarsi tale, poi non importa se quel fiume ha le acque gialle o marrone, è normale che sia così se da dovunque ci si arrivi per bagnarci i propri panni (sporchi) o lavarci i propri pennelli nella speranza che le cose fatte e dette possano trarre beneficio da quell'acqua miracolosa.

Di miracoloso quell'acqua ha solo il fatto di essere ricettacolo per le zanzare e di essere immortalata nelle macchinette compatte di migliaia di persone ogni giorno, Eraclito, però, una notte mi ha sussurrato in un orecchio che panta rei e io gli ho creduto, così mi sorprendo a ridere di quegli stolti che non hanno fermato un bel niente e che dopo qualche secondo, per dovere si cronaca dovrebbe rifarla, quella foto.

Camminare nelle vie che dovrebbe essere tutte chiamate Del Bello per semplificazione e qualità dove ci si orienta subito.

Il segreto sta tutto nella solitudine.

Bisogna percorrerle da soli quelle vie mentre s'indugia nel "ragionar d'amore" perché si ragiona meglio da soli che in due e immaginare di essere in coppia tra le vetrine degli antichi gioiellieri non può che disturbare il cammino verso la casa dei Granduchi, bisogna essere soli e piccolini per schivare le alte germaniche intente a rimirare la pacchianeria.

Così soli si deve stare, senza alcuna parola che distragga le orecchie, che faccia volgere lo sguardo, così si deve rendere omaggio a Davidi e Leoni, da soli a tu per tu, perché due paroline bisognerà per dirgliele, invece, a quelle orecchie di marmo o bronzo senza che orecchie di carne o cartilagine vi assistano.

Poi gli scuri di quel Caravaggio che si ama incondizionatamente, senza parole, lui, solo immagini che si infrangono a ondate regolari all'altezza dello stomaco, la spiaggia del naufragio di una medusa o di una decollazione.

Ma è quando arriva Primavera che il Rinascimento si opera anche dentro chi a quelle passeggiate solitarie vi era arrivato un po' morto, non si piange da soli, a 40 gradi all'ombra, non si piange mentre i giapponesi sfilano regolari alle tue spalle, non si sta un tempo innominabile a divorarsi una parete con le pupille, dovrebbero mettere dei divieti agli ammiratori solitari, o perlomeno l'obbligo di dire Grazie, tutt'e tre.

Poi trovare lettere scritte in una tomba, romantico o stilnovistico a seconda della sensibilità, alla musa di tutto ciò che si può dire a parole, cestini dalla bellezza opinabili ricolmi di ex voto alla dea dell'amore corrisposto nell'anima, all'amore puro quello che non ha l'odore sudato della contingenza, quello che non si spegnerà mai perché mai può sentire il sapore delle labbra, quello che è sempre perché non potrà conoscere il mai.

I passeggiatori solitari non hanno sicuramente il coraggio di lasciare la loro missiva in quel cestino, di mischiarla con altri idiomi, altre storie, del resto cosa c'è da dire sull'argomento che non abbia già detto lui?

Beatrice, colei che porta beatitudine, ognuna delle donne che vagano per la città medievale prima e quella medicea poi, da sola, ognuna delle donne che si sono perse nella calura inseguendo farfalle e ninfee nel giardino di Boboli, ognuna delle donne che ha amato Santa Maria Novella e che ha salutato con un cenno del capo un Brunelleschi intento a rimirarsi la sua cupola avrebbe voluto essere una Beatrice, almeno una volta al mese.

Se qualcuno di questi viandanti si fosse fermato a scrivere su un pezzo di carta di fortuna avremmo letto

"Fortunata tu, tra le donne ad essere amata di un Amore trascendente.

Fortunati i tuoi tempi, nei quali si poteva essere cantate.

E all'oggi, io mi attacco ad un amore trascendente, puro perché in consumato e inconsumabile

Qualcuno millanta che non può esistere ma è l'unico Amore che non passa mai perché è quello che mai ha avuto modo di finire."