lunedì 19 gennaio 2009

Ta Daaaaa

Dom 18 Gen – Vinicio Capossela: Teatro Lirico, Cagliari
L'unica cosa che rimane dopo due ore e mezza di concerto è la sensazione di volerne ancora e ancora.
Uno spettacolo per orecchie ma anche per occhi.
Ma andiamo con ordine...
Davanti alla porta del teatro Christopher Wonder e la sua assistente invitano gli spettatori ad entrare, fanno giochi di prestigio, intrattengono la folla.
Non si era mai visto, so che sarà "magico".
Otto e trenta, forse è il caso di salire, m'immergo già nella poetica viniciana, il Lirico non lo ricordavo così labirintico.
L'attesa cresce,ho aspettative sì, le ho coltivate con cognizione di causa, finalmente le porte si chiudono e le luci si abbassano.
Wonder va in giro per la platea sui trampoli e annuncia tra tutte le attrazioni "mistr Vinniccio Capossla!".
Su il sipario.
Inizia l'intro de "il gigante e il mago", non ci tratteniamo, boato in sala.
La scenografia è pazzesca, mezzo circo di frontiera e mezzo festa del patrono di paese.
Vinicio sta in piedi di fronte ad un organo illuminato di blu, giacca nera e cilindro, sotto, in nostro onore, una t-shirt coi quattro mori.
Si accende il palco ad illuminare i musicisti, ottoni sullo sfondo vestiti a guisa di soldatini di piombo, l'esercito dell salvezza, il mago del teremin, Vince, fagocitato dai mac, un batterista guardorobiere e l'immancabile "Asso" polistrumentista delle corde.
Saluta Vinicio, abbozza uno pseudosardo,ci racconta il concerto, saranno due parti.
Nella prima sarà Da Solo a farla da padrone poi ci sarà un siparietto di Cristopher e la seconda parte con pezzi "datati".
Fibrillazione.
Ci dice che l'ultimo è un album introspettivo e le canzoni sono fatte per stare all'impiedi di fronte alle brutte sorprese della vita, infatti li eseguirà da...seduto.
Nella prima parte, è dunque "da solo" a farla da padrone, Vinicio e il suo pianoforte accompagnato con discrezione dalla band esegue i pezzi del perduto amor e della solitudine, in ordine di traccia, "in clandestinità" e "parla piano" l'una dietro l'altra, i dolori dell'animo umano che ognuno sente un po' suoi, intimi.
Nessuno canta se non mormorii appena sussurrati, tanto da sembrare un rosario sgranato tra sè e sè, quando si dice religioso silenzio.
Vinicio è impeccabile e perfetto, solo il piano è illuminato, i musicisti stanno in penombra, coscenziosi operai, moire che tessono le fila ma invisibli all'occhio umano.
Scrosci di applausi a far trasalire, a ricordarmi che in sala non siamo solo, io, lui e il piano.
Cambia cappello Vinicio e indossa una paglietta anni '40 suona allegro, "una giornata perfetta" lui è il nostro Vic Damone, poi, si fa piccino, siede di fronte ad una minuscola pianolina carillon e inizia a raccontare che nel mondo certe cose sono nate per stare in coppia, che da sole non riescono a esistere.
A volte una coppia scoppiata si ritrova dopo molto tempo, a volte, tristemente, non si ritrova mai.
Così succede alle scarpe, ai guanti e, soprattutto ai calzini.
Dopo questa presentazione da staccarsi un arto a morsi per il dolore, qualcuno in sala, e gruppetti numerosi anche, scoppiano in una sonora risata e mano a mano che la canzone scorre ancora di più.
A quel punto mi credo quali meravigliosi meccanismi di fraintendimento nascano nel cervello umano, ma questo non importa, stasera niente importa.
E' il momento della perla di "da solo": "orfani ora" e di nuovo, finalmente tutto tace, (forse la parola orfano è più chiara della metafora podale).
Stupendo Vinicio, canta come in estasi, è in stato di grazia, lo ammetterà lui stesso più tardi.
E' ora di cambiare continente, la provincia americana e il suo soporifero decadentismo aspettano.
L'inizio di "Vetri appannati d'America" più a luce ad illuminare gli ottoni che tornano dal fronte è accompagnato dalla marcia di un soldato che porta la bandiera a stelle e strisce.
E poi buio di nuovo e sembra di stare nel Mississipi in uno scantinato che odora di alcool e chiuso invaso dalle zanzare, mentre l'unica lampadina ondeggia sulla testa di Vinicio che schivandola canta "dalla parte della sera" e si alza poi e imbraccia la chitarra, e parte "la faccia della terra", pezzo scritto coi Calexico.
Ed è su "lettera ai soldati" dedicata alle vittime recenti dell'eccidio di stato di Gaza che ritorna al piano per eseguirla, carica e perfetta da far urlare di liberazione i condotti lacrimali.
Poi è un armonio a concludere la prima parte mentre la voce roca di Vinicio canta "Non c'è disaccordo nel cielo" sulle note di Lehman.
Vinicio ringrazia dopo ogni pezzo, il pubblico è entusiasta, estatico come si è davanti alle cose belle ma si va avanti il baraccone deve nuoversi e via un quarto d'ora con i surreali giochi di prestigio di Wonder conclusi tutti con la frase Ta Da (che ha però tatuata sull'addome) e che mostra al momento dell'applauso.
Ma è solo un attimo, una sirena a manovella annuncia la seconda parte, che il circo abbia inizio, saranno tanti gli animali mitologici che si susseguiranno ma ancora non è tempo.
Tutto sarà scandito da due sillabe ta daa.
Vinicio ha un enorme colbacco da Ussaro (?) e si siede al piano dedicando questa canzone a noi che "se non stiamo attenti rischieremo di mangiare tanti "Cappellacci" al cemento armato e al suo Gran Visir che muove le fila del gioco accompagnandolo dovunque a spese nostre.
Su Marajà saltiamo in aria.
E poi il buon Vinicio fa un omaggio floreale "con una rosa" è splendida e partecipata.
Poi è tutto un susseguirsi di attrazioni e citazioni, di giochi e musiche di personaggi.
Vinicio dice che per la seconda parte, quella circense, bisogna esser pronti e così fa ginnastica ma...
Parla in russo.
Declama i versi di Vysotskij, ah la ginnastica del pugile sentimentale, e si ritrova in gabbia, come tutti i potenti cercano di fare costruendoci le gabbie mentre pensiamo al corpo.
Poi è Bardamù con uno yorkshire vestito da leone ad entrare in scena insieme a Christopher domatore perchè "ogni animale in gabbia diventa un leone" e da lì una maschera da scimmia col berretto rosso a ricordare i musici di strada e la gabbia diventa luogo per la medusa e il suo forsennato cha cha cha.
Vinicio canta attraverso la maschera e la sinuosa medusa danza e ammicca accompagnata dagli acuti del teremin.
Ed è la volta di canzone a manovella con tato di palombaro e un inedito Vinicio sirenetta che si cimenta in una danza.
Rientra in gabbia con mosse da cacciatore ma, armato di chitarra per chiedersi che coss'è l'amor" mentre si fatica a stare seduti per la voglia di ballare inizia un twist, è il gambale twist, in sardo e ad un certo punto entra nella gabbia con le sbarre illuminate Benito Urgu, inventore del suddetto ballo.
Cantano è divertente e...Benito sembra non volersene andare dal palco.
Ma si deve ancora andare avanti, Vinicio viene a chiacchierare e introduce l'uman pignatta, il mago come Houdini in camicia di forza legato in alto, per i piedi, ma condannato a essere la pentolaccia "giacchè è sant'Antonio abate".
E lì festa canti, in piedi a ballare per l'uomo vivo (che intanto sta a testa in giù a prenderle di santa ragione).
E' una cosa spaventosa vista da fuori, gio-gio-ia e giù botte, ma c'è il riscatto?
Dipende...
Habet hoc, il colosseo vuole la grazia per l'uman pignatta?
Lo accompagna fuori e in sala si fa buio, lo sappiamo già, lo sentiamo...
"Eccola viene..."
Vinicio vestito da Minotauro sardopellita con la lignea maschera da Boe di Ottana, la pelle e le campane del Mammutone di Mamoiada, un animale mitologico che impersona un animale mitologico.
Il minotauro canta "brucia troia" così dietro la maschera e dentro la gabbia, si arrampica e sbuffa.
Finisce e giù il sipario.
Durante questa seconda parte Vinicio dimentica spesso le parole e inverte i ritornelli ma si riprende subito, poco male, la magia che è stata creata può ben sopperire a qualche "canzone a manovella" detto a caso in mezzo al pezzo o "ad appoggiarsi sempre volentieri" senza mai "volteggiare tutto crocco" quando non si sa cos'è l'amore, ripeto, poco male davvero...
Aspettiamo il bis, urliamo, chiamiamo, applaudiamo, ma è il minotauro ad uscire e a catturare due persone del pubblico.
l sipario si apre quasi subito, ecco, ora ad essere in gabbia sono i due poveri malcapitati,
Più che di un bis però si tratta proprio di una terza parte dedicata alla Sardegna stavolta.
Prima una poesia in sardo, poi la traduce in italiano e lì dice che la Sardegna gli ricorda il west perciò è addobbato da cow boy e poi è stanco e perduto.
Omaggia De Andrè che tanto aveva amato queste terre con la "città vecchia" e finisce presentando i musici con "all'una e trentacinque circa".
Finito, ora davvero però, è mezzanotte ma non ne avevo abbastanza.
Anche se ogni concerto di Vinicio è uno spettacolo questo forse è stato il più bello sia per qualità che per coinvolgimento.
Esecuzioni impeccabili e cura per ogni dettaglio.
Uno spettacolo fatto affinchè fosse una gioia dei sensi.
Mi scuso se ho diimenticato qualcosa ma sono stata davvero molto coinvolta.
Sono uscita con gli occhi sgranati, perduta in un vortice di meraviglia, continuando a ripetere TA DA con un sorriso ebete stampato in faccia.
La gioia dei bambini all'uscita del circo.

domenica 18 gennaio 2009

Preferisco rimanere un'impressione

Le canzoni di Vinicio Capossela, il poeta ubriaco del Chiavicone, stanco e perduto, prendono vita in questo libro.
Tutti i personaggi si creano e si celebrano ed ampliano la loro esistenza oltre i 3 minuti e mezzo medi di una canzone, arrivano, a tutto tondo.
Così scopriamo i retroscena dell'amicizia con Nutless, la poetica del Chiavicone, i Balcani in Volvo, la clandestinità dei Motel e Stanbul il Ponte.
Per quanto sia interessante nel contesto della compresione e della visione della poetica Caposseliana, il libro pecca un po' per eccesso.
Prolisso e verboso perlopiù, non malscritto ma ridondante e roccocò.
Ci sono dei capitoli che accendono il desiderio di un canto antico come il suono dei Balcani o della Grecia, altri stanchi e perduti, altri abbacinano per la reatà dell'umano che abbracciano, altri, molti, perfettamente inutili.
C'è quasi dappertutto una piccola perla sparsa un cammeo riconoscibile, una specie di sphragis che fa dire "questo lo conosco" e sorridendo, riporta a una melodia.
Nelle radiocapitolazioni scorre di più e meglio, non foss'altro perchè Vinicio scrive come canta, rapsodo post-moderno.
Altro neo è che forse l'idea del romanzo unitario è un po' ambiziosa, volendo demolire lo schema narrativo si rischia solo di perdersi in pensieri non associativi ma, apparentemente, incoerenti.
"Vanescio, ma che coss'è l'amore?"
Amore è aver finito questo libro d'un fiato nonostante la pesantezza oggettiva e la, purtroppo, poca coerenza interna.

mercoledì 14 gennaio 2009

Io sono un Poeta, io sono Dio

C'era un uomo che le antologie italiane, ma solo le migliori, citano e basta.
C'era uno scrittore che in America cenava con Wiliams ed Henriette Monroe, poteva permettersi di snobbare Lee Masters ma faceva il lavapiatti.
In pochi sanno che è esistito e a Clementi va il merito di averlo resuscitato.
Emanuel Carnevali, il cantore delle camere ammobiliate, il poeta delle donne di scorta, il dio delle strade dell'American dream.
Fare un commento unitario a questo libro è pressocchè impossibile anche perchè già di per se è diviso in più parti.
Il romanzo "il primo dio" è un viaggio agli inferi ma il Carnevali, che all'inizio ci fa da Virgilio perde a poco a poco la sua dimensione di guida per diventare esso stesso anima dannata che racconta.
Anche la scrittura cambia, dalle frasi brevi e frammentate della prima parte si passa, mano a mano che aumenta l'età anagrafica ad una maggiore articolazione dello stile.
E la malattia, quest'insondabile stato che in qualche modo gli appartiene come stato d'animo più che come stato fisico e l'abbandono...
"Io sono un poeta, io sono dio", questo il leitmotiv della sua vita, perchè poeta lo era Em, e non aveva vergogna di dirlo per falsa modestia; se ne gonfiava il petto per poi urlarlo alle sponde dei fiumi delle sue città adottive, e la sua poesia era quello che lo divinizzava, senza non avrebbe potuto "essere".
Nelle sue poesie, raccolte nella seconda parte, c'è tutta la forza delle radici di un apolide.
Un mix tra gli americani suoi contemporanei e gli amati francesi pensati da un Italiano.
Nella descrizione dei luoghi parla di tutti ma nessuno a cui appartenere, l'America che è nota da sempre e un'Italia mai vista.
E poi c'è il critico letterario, lucido nella sua delirante prosa, non teme neanche i mostri sacri Emanuel e demolisce in modo totale e spregiudicato Pound oppure è capace di infinita stima e ammirazione come nel caso di Rimbaud.
Quella che rimane è la sensazione di avere tra le mani un piccolo capolavoro ma in nuce, una personalità fuori dagli schemi, la sensazione di un cerino che si è consumato troppo in fretta, prima di riuscire ad accendere la candela.

Il primo Dio
Il primo Dio - Poesie scelte - Racconti e scritti critici
Di Emanuel Carnevali, Maria Pia Carnevali (Curatore), Luigi Ballerini (Collaboratore)
Adelphi (Biblioteca, 81, 1978

mercoledì 7 gennaio 2009

Io comincio a far poesie quando la partita è perduta

Cesare Pavese e la sua vita, ma non quella raccontata, quella del confino e della gloria, non la vita dell'intellettuale, del Genio ma,
la vita di Cesare-Uomo, prestato alla scrittura, regalato ad eternare l'umanità e la natura, generosamente narratore, grazie ai Numi Poeta, professione: vivente.
Sono paradossalmente contenta di aver letto questo libro tardi, l'ho letto, non da solo, alternato ad altro perché l'enormità della sua essenza andava centellinata e disciolta, (quando stai male prendi la medicina ad intervalli regolari, sarebbe da idioti consumare la boccetta tutta assieme, non sortirebbe alcun effetto), ho vinto la mia naturale bulimia lettoria per poter godere di ogni singola parola.
Del mal d'amore si sa, è così universalmente comprensibile, fatto salvo per una più o meno frustrata misoginia, più una difesa che realtà a quanto sembra, ma è l'entrare nel vivo del procedere della scrittura, delle sue ellissi, partecipare all'archè e all'evoluzione di quei romanzi, di quelle poesie, che tanto si è costretti ad amare una volta scoperti, sviscerarne il background, capirne le storie e la Storia è un modo sicuro per non poterne più a fare a meno.
Mi sono persa in un pozzo di cultura, a partire dalle teorizzazioni sul mito, nei grandi temi della letteratura, nella poetica e nelle scelte non solo estetiche, ora so cos'è il Simbolo e i suoi perché.
Ma quel che più conta è l'essere entrata a contatto con l'anima e le sue vicende, il disagio di vivere, di Essere, l'Amore e la Morte, mi sono bevuta ogni singola pillola di vita confrontandola con ciò che mi è noto e crudamente riconoscendomi in essa.
E quella fine, così ineluttabile, razionale, eticamente giustificata, il dolore che si prova nel leggere in data 18 agosto 1950
"Non parole.Un gesto.Non scriverò più".
La vera morte del poeta è questa, smettere di esistere nella scrittura immanente conscio (o no?) di essere eternato dalle sue stesse parole .

Il mestiere di vivere
Diario 1935-1950
Di Cesare Pavese, Marziano Guglielminetti (Curatore), Laura Nay (Curatore)
Einaudi ET, 2000