martedì 23 febbraio 2010

che l'essere soddisfatti di sé significa essere vili e ignoranti

Non sempre i libri si scelgono, spesso e volentieri sono loro a scegliere te, mancherebbe solo che iniziassero a leggerti ma questo è un altro trip.
Flatlandia, ecco, mi ha scelta in questo momento.
Il problema di quando un libro arriva per tante vie a voler essere letto (tipo la ricorrenza ossessiva di uno stesso numero) deve tener conto che crea moltissime aspettative in chi si appresta a fare la sua conoscenza.
Proprio per questo non posso gridare al capolavoro leggendo il libro di Abbott, ma, degli applausi se li merita tutti & tutti.
"La terra è piatta", il mondo è bidimensionale, ridete pure sì, poi provate ad immaginare una quarta dimensione.
Difficile, senz'altro.
E allora ce lo si spiega con il sapere rivelato empiricamente da un dio sfera che non ammette altra verità al di fuori del tridimensionale per paura che ci sia qualcuno che si estende oltre lui?
O con un dio punto che si bea di sé stesso come solo gli stolti e i puntiformi,ovvero ciò che compie solo una rotazione su sé stesso, può fare?
Oppure, semplicemente, si risolve con un umorismo feroce, una critica costante agli esseri tridimensionali (voi quante dimensioni avete?) che viene da quel mondo piatto ed esteso.
Un vero tratterello di geometria mascherato da libro di teologia (o viceversa?)

Io, che di matematica non ne capisco nulla me ne sto qui ad ammirare un linguaggio simbolico, me ne sto qui ad ammirare la genialità della metafora.
Sto qui a cercare di dedurre una quarta dimensione.
(O anche una quinta, una sesta, una settima?)
fino a rendermi conto che il mio saccente universo è solo un foglio scarabocchiato su una scrivania.

Flatlandia
Racconto fantastico a più dimensioni
Di Edwin A. Abbott, Masolino d'Amico (Traduttore), Masolino d'Amico (Prefazione), Giorgio Manganelli (Postfazione)
Adelphi, 1993

Orizzonti perduti (Venezia)

Se perdete un oggetto, un qualsiasi oggetto, state pur certi che si è smarrito a Venezia.
Impossibile tenere da conto le obiezioni di chi borbotta che in laguna non ci ha messo mai piede e che gli pare difficile che il suo portachiavi d'osso si trovi tra le calli, quelli che il leone l'hanno solo visto proiettato su uno schermo, seppur piatto.
E' evidente che non hanno mai perso un elmo di bronzo, o le corde di un pianoforte, le cose normali, che si trovano a Venezia.
Ci deve essere la nebbia, però e deve essere il mattino più uggioso di tutta la via lattea, perché possiate trovare qualcosa che di certo non avete perso voi.
Mai cercare lì quello che non trovate più, non lo rinverreste mai; a Venezia si trovano solo le cose smarrite da altri.
Una giapponese, una volta, ha trovato a Rialto l'orecchio di Van Gogh mentre cercava degli occhiali da sole e un americano grasso il senno di Quijote nel tentativo di legarsi una scarpa.
A un giovane prete finirono in mano le ali di Lucifero sul canale della Giudecca mentre era perso a scrutare chissà che cosa, il più fortunato di tutti nell'antro più scuro di una gondola ha ritrovato la memoria del XX secolo.
Pensare che aveva solo perso una moneta.
Il rinvenimento è opera di mani forestiere, non può avvenire da parte di un indigeno, se no tutte le mattine di uggia, ogni volta che si aprono i libri, si troverebbero segni persi da altri e sarebbe un fatto piuttosto scomodo.
Per quel che ci riguarda io cercavo il filo di un discorso, non perso da me s'intende, mi sarebbe stato impossibile altrimenti.
Era un filo lungo, un discorso complesso, di quelli che forse non puoi neanche dipanare se non ne tieni stretto stretto un capo, di quelli che, forse, ti s'ingarbugliano in modo tale che ti legano così strette le falangi da dover essere troncati per non essere di danno.
Era un discorso metafisico e metà no, non credo fosse di circostanza, forse la perdita di quel filo era stata un po' accidentale un po' voluta fatto sta che, non trovandosi il filo, occorreva procedere alla sua ricerca spasmodica.
E mentre l'acqua si alzava su tutti i canali, a reti unificate insomma, io cercavo il filo dietro le maschere cinesi dipinte a mano in loco per i turisti, lo cercavo nelle suole degli stivali di plastica facendo alzare i piedi a tutti i visitatori di San Marco in bilico sulle passerelle.
L'ho cercato tra le cartoline stese a bagnarsi alla pioggia, tra le pietre del selciato dei sotoporteghi, ho chiesto alle passanti se mai avessero visto il filo di un discorso perduto.
Solo allora, con l'acqua alta, persi qualcosa anche io, persi le Speranze di ritrovarlo, i canali invadevano la strada, doveva essere affogato il filo di quel discorso.
E le Speranze, si sa, giacché sono le ultime a morire, quando si perdono a Venezia, vanno a vivere sulla luna ma questa è un'altra storia e quando andrò lassù ve la racconterò.
Non mi è restato che tornare indietro, sfilata.

Ma qualcosa, a Venezia, nelle giornate più uggiose di tutta la via lattea lo si deve trovare per forza.
A me è stato concesso di trovare ventitre rose in fondo alle tasche di un cappotto caro, sono rose assai utili, per quando si perde il lume della ragione, basta fare click e non c'è bisogno di arrivare fino a Venezia per ritrovarlo.

mercoledì 17 febbraio 2010

Tutto ritorna per me ad avere un senso o almeno si spera.

Una manciata di anni e un ombrello arcobaleno, un mandarino sopra la testa ma ogni spicchio di un diverso colore.
Guardare la pioggia da là sotto ha sempre un senso e non importa se il colore dei para-acqua è tale solo perché erano ancora gli anni '80.
Nel 1988, al tramonto, non pioveva mai.
Invece adesso di tramonti ne piovono via tanti e tanti ne sono piovuti già via, forse perché l'ombrellino è troppo piccolo e non ripara più dall'incipit della tenebra.
E chissà dov'è finito poi, quale vento l'ha spezzato, in quale cantone è conservato.
Curioso come certi oggetti escano dalle vite e si ripropongano in altra forma.
Puoi sostituirlo quell'ombrellino arcobaleno, con un carillon, uno di quelli che stanno in una scatolina e che ti vengono donati quando meno te lo aspetti.
Uno di quelli che li apri e ci ritrovi dentro la ballerina con la gamba rotta, ma non quella piegata, che, tutto sommato non serve poi a tanto, proprio quella che regge, quella tesa tra la base e il tutù, rimane solo attaccata per un pezzettino di fil di ferro tra due monconi, la danzatrice calMa,
Continua al suo calare, nel crepuscolo ma a girare e a riempire mentre che il cielo si oscura.
E non basta una volta, ed è fatta così, dopo che si apre la scatola magica e sale, sale, sale dal carillon ma non l'acchiappi, no, non l'acchiappi neanche se allunghi le braccia in alto e un po' t'illudi ma dietro sale ancora, troppo lontana.
e d’incanto l’identico istinto ci coglie
e con me ti fai trascinare via

E poi si sdoppia, e si quadruplica e prende tutto lo spazio, si nasconde negli angoli, con il vento, poi finiscono gli ululati, del vento e calano per sovrapporsi, e ritornare al buio di una scatolina, la sera.
In fondo ai carillon regalati c'è un piccolo parapioggia d'arcobaleno, nascosto, perché è troppo timido per essere trovato ( lo sa che è del colore del 1988) si lascia solo vedere, quando ormai LO credevo disperso, faccia al tramonto quasi finito
mentre un raggio di luna rifrange
sulla pioggia che piange
.

sabato 13 febbraio 2010

Questioni di principio

Come iniziare.
L'inizio, il principio l'archè non è naturale, è sempre frutto di un trauma; un processo, un qualsiasi processo per poter divenire liberamente ha la necessità di accadere.
E come accadere se il demiurgo si ritrova nel mare magnum che aveva sempre aborrito (per la paura d'annegare mascherata da snobismo) della moltitudine di pagine di qualità più o meno alta che sono i blog?
Lo scopriremo solo scrivendo e ancora si necessita di un inizio.
Poi c'era una volta la Necessità.
Ovvio, non c'è la Necessità, in un big bang ci sono solo i principi primi e le cause accidenti e accidentalmente la decisione di tuffarsi è un inizio; un tuffo senza necessita, s'intende.
Si rischia però, necessariamente, di arrotolare lo spaghetto chiamato Necessità per ore ed ore in una forchetta fatta di luoghi comuni prima di poterla assaggiare e di dire che è un po' scotta.
Quindi, arrivando alla conclusione che l'atto di pubblica scrittura non è affatto necessario, superfluo è anche chiedersi perché non lo sia.
Accade e basta, come nel più canonico degli incidenti, non c'è intenzionalità nell'avvenimento, gli dei sonnecchiano da un po'.
Eppure non è proprio così, neanche la questione divina può essere archiviata, per principio.
E la questione di principio è sempre il Verbo, da V a V, (Vangeli e Veda, chiariamo)la Parola che è intenzionale perché modellabile, flessibile, utilizzabile.
Il problema sta nell'inizio e nella fine di questa intenzionalità, forse occorrerebbe un'opera di canalizzazione, ma questa dovrebbe essere svolta in funzione di qualcosa, un Manifesto Intellettuale fungerebbe all'abbisogna.
Essendo però, lo spirito di questo demiurgo un tantinello anarchico e, ahimè, non avendo proprio nulla da manifestare se non lo sconcerto di questi tristi tempi bui, come farebbe (e meglio!) qualsiasi pensionato che gioca a carte nella bettola sotto casa, ci si limiterà a manifestare i limiti dell'homo scribens .
Ma per questo non servono manifesti, basta solo leggersi attorno.
Poi c'è chi attorno non ci si legge e allora che almeno ci si legga indietro chissà che a qualcosa si arrivi, non foss'altro che la nostalgia di un'epoca bene-scrivente.
E come in ogni creazione che si rispetti, come in ogni big bang, c'è un gran casino e molto fumo, nebulose su nebulose, come nebuloso è qui adesso.
L'importante è l'arché mi pare
il resto sono solo questioni di principio.

giovedì 4 febbraio 2010

E lui si chinò al mio orecchio, mi parlò nell'orecchio. E io ascoltai le parole sue al mio orecchio, ridendo "ah! ah!" e parlai nell'orecchio a lui, e fummo due che si parlavano all'orecchio.

-Vuoi tu AthenaBlu prendere questo libro e tenerlo a mente?
-Sì, lo voglio.

"Una lettura un po' noiosa", mi avevano detto le malelingue, ma le malelingue, si sa, parlano male e, a volte, leggono peggio.
Poche parole su questo libro e una dichiarazione d'amore, alla lingua prima di tutto, alla ripetitiva, ossessiva, in una composizione che torna e ritorna, peggio di un anello, una spirale che affonda nella terra di Sicilia o di "altrove" e arriva ad innalzarsi, di ripetizione in ripetizione, fino al cielo degli aquiloni dell'aulismo.
E poi, seconda dichiarazione d'amore all'atmosfera onirica, pesante, più da ricordo nel sogno che da ritorno vero e proprio, dove l'umano, tutte le forme dell'umano, soprattutto le più misere, spiccano e splendono in un bianco&nero lungi dall'essere piatto ma denso di sfumature, come, chessò, Bergman, per dirne uno.
Un viaggio metafisico alla ricerca dell'Essere, inteso come sé che dalle radici non può prescindere, ma non è una ricerca ossessiva quella di Vittorini/Silvestro, né pedante.
E a questo punto sì, gli crediamo, quando dice che la sua Sicilia, seppur così precisa nella toponomastica, si scioglie in un luogo qualsiasi nel mondo.
Ma il centro è l'Uomo, nei suoi tipi, nella miserie, non è una ricerca psicologica in senso stretto la sua, le figure sono ombre, fantasmi, sbozzate in un gigantismo epico o rattrappite alla bidimensionalità della loro pochezza.
Anche loro, gli interlocutori, sono ossessivi, ognuno portatore di un messaggio che la censura voleva velato, ognuno col suo modo di vedere le cose del mondo e della vita, intavolano dialoghi grazie ai quali Silvestro cresce, ha il tempo di farlo. Sempre volatili nel modo (quasi a sfiorare il nonsense) ma ancorati ad una roccia di leitmotive che ne segnano le coordinate icastiche ma non macchiettistiche.
E poi, vabbè, metteteci anche le illustrazione di Guttuso, così, come contorno alle "aringhe e alle chiocciole da succhiare".

Conversazione in Sicilia
Di Elio Vittorini
BUR Biblioteca Univ. Rizzoli, 2006