mercoledì 22 luglio 2009

Lontananze d'azzurro per noi

Lun 20 Lug – Franco Battiato: Notti mediterranee: Anfiteatro Romano, Cagliari
Le cose belle, quelle straordinariamente belle, sono quelle che non ci si aspetta, anche se si tenta di preventivarle, anche se grazie a quello che si è già vissuto le si può immaginare.
Così mi sentivo io fuori dai cancelli, quasi sovrappensiero, ma meno male non mi sono perduta anche perché la folla fa quello che deve fare ti adotta lei quando tu non hai la coscienza dell’andare quando però ti rimane a percezione che quello che stai per vivere è un’esperienza che conosci ma che ogni volta riesce ad essere nuova e magica.
In fondo si trattava pur sempre di un concerto di Franco Battiato e se ci aggiungiamo una location come quella dell’Anfiteatro Romano di Cagliari e un maestrale leggero leggero da spazzare l’afa pesante dell’aria estiva avevo ben ragione di avere alte aspettative.
La cosa più brutta delle grandi aspettative è che non si risolvono nel modo in cui, appunto, ci si aspetta ed è andata così anche stavolta, infatti è stato meglio, molto meglio.
Provare a parlarne non è impresa semplice: avete mai provato, da bambini, a sforzarvi di spiegare, con parole compiute, l’eccitazione all’altezza dello stomaco che si prova a tentare di afferrare la polvere che galleggia nei raggi di sole che entrano dalle finestre e non riuscire a prenderli?
Ecco, più o meno una cosa del genere.
Quindi tenterò di limitarmi al concerto vero e proprio per quanto sia possibile scindere una cosa che poi diventa così intima nella sua evoluzione, ma credo che sia sensazione comune tutta questa intimità.
Il costo dei biglietti, non dico proibitivo ma quasi, ha fatto in modo che l’età media del pubblico si aggirasse attorno al mezzo secolo, contando che gli ottantenni erano ben rappresentati, è facile constatare che la popolazione giovanile c’era comunque e anche che l’Anfiteatro non fosse zeppo come nelle grandi occasioni. Il pubblico, però, si sarebbe rivelato attento, partecipe e anche troppo vivo.
Noi, abbastanza abituate a ben altre folle, abbiamo fatto fruttare il nostro biglietto non numerato nel posto migliore che si potesse sperare (nonostante le mie perplessità iniziali…dovrei fidarmi di chi ne sa più di me una volta in più) per vedere un concerto di altissimo livello nel migliore dei modi possibili.
Più o meno alle nove e mezzo vengono annunciate le Lilies of Mars, spin-off delle Mab formato dalle chitarriste più un dj e un batterista (nota di “colore” non richiesta la rastona bionda adesso ha i capelli di un vivo verde-elfo-smeraldato). Bene, le mie conterranee mi stanno simpatiche, sono brave perfino, ma l’ascolto prolungato, specialmente in questa versione mi provoca uno smerigliamento tale da equivalersi ad un “breve invito ad ACCELERARE il suicidio” fanno quattro pezzi di lamenti in diretta dalla Terra di Mezzo e poi finalmente giù le luci e…
E adesso s’inizia veramente, adesso è il momento, potrei anche sorridere da sola ad immaginare l’entrata mentre i tecnici preparano il palco nella semi oscurità tanto che qualcuno grida “ e accendetegliela una luce mischinetti ‘tta ‘gà”, segno evidente che la provenienza del pubblico è trasversale e percorre tutta l’isola.
Entrano per primi il Quartetto Italiano d’Archi, il pianista e il tastierista multitasking con strumentazione da cyber punk musicofilo tutti assolutamente vestiti di nero, e il chitarrista Davide Ferrario, biancovestito e apparentemente scisso dal contesto.
Ma è all’entrata del Maestro che il pubblico si scalda per davvero sciogliendosi in interminabile applauso: “ci siamo” penso “ ci siamo…” mentre Battiato profondendosi in inchini e sorrisi guadagna la sua posizione seduto sopra un piccolo piano rialzato ricoperto da un tappeto orientale, aspetta che scemino gli applausi e dice: “il pubblico delle isole è sempre il più caloroso”.
Conquistati.
Con niente.
Ah, come lo conosci bene il pubblico delle isole Franco, sai bene che basta ricordargli la loro insularità, ergo differenza sentita come un complimento, per farli andare in visibilio; è un uomo di spettacolo, certo che lo sa, e la sua grande esperienza verrà fuori in più di un’occasione durante la serata.
Niente di meglio in questa situazione se non iniziare con un HAIKU delicato, giocato con suoni che rimangono sussurrati ma chiari e netti, come un breve Haiku giapponese appunto, il pubblico è già in visibilio ma è solo l’inizio dell’inizio.
Dice che alcune canzoni le fa rarissimamente ma gli piace variare il repertorio e ha scelto NO TIME, NO SPACE, non poteva farci regalo migliore, gli effetti e le tastiere arrivano al massimo sottolineata dagli archi che danno volatilità ad un ritornello da Odissea nello spazio, L’INCANTESIMO a seguire in un atmosfera più che onirica e LA QUIETE DOPO UN ADDIO da quel Ferro Battuto che temevo non accennasse neanche.
Lu Mastru è ispirato, siede sul tappeto come un poeta arabo da Mille e una Notte, beve alla nostra salute, canta, intrattiene e si accompagna danzando con le mani, tutto è molto ipnotico e coinvolgente ma sa anche cambiare repentinamente con un suono più marcato e sintetico, con una chitarra più presente parte UN’ALTRA VITA.
Poi sfoglia un “fiore” uno dei numero due “perché mi piaceva l’idea di tornare indietro così spero conclusa questa trilogia” e canta il pezzo che fu di Dalida: Il Venait D'avoir 18 Ans e a seguire un altro E Più TI AMO tutte molto sentite e partecipate anche dal pubblico che raggiunge il suo culmine con la pregevole cover di Endrigo ERA D’ESTATE che esalta con un arrangiamento battitaesco quello che già era un grande pezzo e poi LA CANZONE DEI VECCHI AMANTI a chiudere il bouquet.
Si torna nell’attualità con una POVERA PATRIA che viene accolta con una cascata di applausi così armonicamente ariosa contrastante con il testo pesante e contundente in cui la parte del leone la fanno gli archi con il loro retrogusto malinconico, poi una STAGE DOORS da far digrignare le anime e va a stemperare con IT’S FIVE O’CLOCK, sorridente.
Tocca poi impegnarsi con TIBET il pezzo inedito ispirato appunto alla questione Cina - Tibet e racconta che lui è stato invitato ad esibirsi in piazza Tienanmen ma non sa se lo vorranno ancora dopo questo pezzo, non lo conoscevo, il brano è carino, con una bella voce femminile, piano e mac suppongo, oltre agli immancabili archi.
Arriva anche il momento musicalmente epicizzante di TRA SESSO E CASTITA che declina nel puro brivido quando parte L’OMBRA DELLE LUCE e il suo misticismo che cattura a prescindere dal sentire di ognuno sull’argomento e continuando con LODE ALL’INVIOLATO dove la chitarra di Ferrario trova una collocazione più netta.
Ma l’acmè arriva quando Battiato si alza in piedi per cantare forse la sua più dolorosa, la più inflazionata anche, quindi non mi aspettavo che a quell’attacco d’archi mi si inumidissero gli occhi, LA CURA è stata perfetta e ho capito anche perché nonostante tutto e tutti coinvolga così tanto, se non perché è essa stessa un brano perfetto.
Immediatamente successiva CAFE’ DE LA PAIX ottunde i sensi e da un sapore speziato all’attesa di quel tè, mentre per i TRENI DI TOZEUR ci regala un aneddoto su un arabo che capiva solo il siciliano, pare divertirsi Franco e regge il palco come solo un artista della sua caratura potrebbe fare, è seduto, muove solo le mani, ma è impeccabile ed emana un carisma che catalizza.
Continua all’insegna di un progressivo tentativo di “alleggerimento” i ritmi si fanno più sostenuti, i cambi più marcati, i campionamenti e le tastiere più presenti, scorre LA STAGIONE DELL’AMORE e subito a rincorrerla una più pacata E TI VENGO A CERCARE così abbinate quasi a raccontare le dietrologie d’amore a seguire una STRANIZZA D’AMURI richiesta dal pubblico frutto di un “compromesso sindacale” tra il Maestro e i musicisti.
Ecco, una cosa che non sopporto proprio è quella di pensare il cantante sul palco come un juke box, vedrà lui cosa fare e come farla se no te ne stai a casetta e ti scegli la traccia dall’I-Pod.
Un’inaspettata MAGIC SHOP sempre eseguita in piedi manda comprensibilmente in visibilio l’anfiteatro e a chiudere l’immancabile singolo TUTTO L’UNIVERSO OBBEDISCE ALL’AMORE versione iperpop con tanto di ballettino.
Così Battiato s’inchina al suo pubblico dopo un’ora e mezza di spettacolo che pare volata tant’è che chiedo alla mia amica come mai avesse suonato così poco, ho perso completamente la cognizione del tempo e manca ancora tutto il Bis.
Il pubblico ha applaudito a lungo per ogni canzone, ci sono state anche le dichiarazioni d’amore da parte di qualche signora in platea e anche qualche altra, magari un po’ più interiore e assolutamente platonica.
Ma ri-escono i musicisti e ri-esce Battiato è il momento delle danze, inizia con SUMMER ON A SOLITARY BEACH estiva e fresca nella sua malinconia e a seguire un omaggio a Giuni Russo con un pezzo che aveva scritto per lei e ora campeggia tra i Fleurs: L’ADDIO e sempre per un altro grande, il più grande di tutti, un altro omaggio, c’è quella versione di INVERNO di De Andrè che tanto avevo apprezzato al tributo a lui dedicato da Fazio e per la quale, io, logorroica, ho finito le parole.
Ma poi l’atmosfera cambia, gli archi si fanno più consistenti e incisivi, le tastiere e i campionamenti acquisiscono ritmo e anche Ferrario che trova finalmente una giustificazione nel suo dimenarsi come se suonasse nei Ramones, L’ERA DEL CINGHIALE BIANCO è un delirio di suoni e già dall’incipit “Pieni gli alberghi a Cagliari per le vacanze estive” fa sì che sì che il pubblico vada completamente in visibilio.
Esce di nuovo e qualche sveglione, anzi molti, decidono di alzare i tacchi rischiando di far saltare il secondo bis che meno male buona parte del pubblico ancora chiedeva.
E allora di nuovo tutti fuori per una PROSPETTIA NEVSKI che porta un po’ di refrigerio e anche un po’ di autocompiacimento quando fa cantare al pubblico “e il mio maestro m’insegnò com’è difficile trovare l’alba dentro l’imbrunire” ma è disponibile e allegro, stringe mani, prende regali e con VOGLIO VEDERTI DANZARE trasforma l’autorevole anfiteatro romano in un’enorme festa danzereccia ballando anche lui con un’agilità sorprendente e facendo alzare anche la platea ottuagenaria in un quasi pogo esaltato.
Pare chiudere con L’ANIMALE, pare che sia tutto finito ma altro giro, altra corsa, CUCCURUCCUCU’ in coro col pubblico in piedi, danzante, felice, appagato, l’estasi collettiva della festa, “ma non posso lasciarvi così” dice e chiede al suo pianista un do maggiore per farci cantare quel ritornello da Vespa morettina, proprio quel CENTRO DI GRAVITA’ PERMANENTE con cui ci saluta e per davvero.
La sensazione che si ha all’uscita, nonostante il rammarico per quel pezzo che avresti voluto sentire e invece non c’è stato, è quella di avere assistito ad un grande evento, curato, perfetto in ogni dettaglio, catalizzante ed emozionante.
Lui, un grande maestro di cerimonia, perfettamente a suo agio nel tenere il palco e l’attenzione catalizzata su di sé, si permette delle sviolinate altissime e un repertorio, pregno e intenso prima che va a scemare nelle hits poi, senza sbagliare un colpo tenendo perfettamente le fila come in un racconto unitario, sempre perfetto nei tempi, nelle intonazioni nei piccoli gesti, curatissimi come una perfomance di teatro Kabuki.
Un concerto di Battiato è fatto indescrivibile e anche provandoci le parole non bastano mai, certe cose non si spiegano, non è giusto, si possono solo tentare di raccontare nel modo più lineare piano e possibile, per la cronaca, così, senza pretesa alcuna, solo con l’augurio che accada di nuovo e all’improvviso.

Ho chiesto alla polvere

Non posso parlare di questo libro prescindendo da quello che mi ha ricordato di più, non posso parlarne se non paragonando Arturo Bandini (o John Fante, c'est a vous) con quel Carnevali del Primo Dio .
Anche qui c'è l'America delle stanzette in affitto, dei mozziconi spenti, della Santa Arte dell'Arrangiarsi in attesa dell'esplosione, del riconoscimento di quell'altra arte, quella della parola.
Italoamericani entrambi, quindi ai margini, uno nell'est e l'altro nel west come che la cosa poi sia in qualche modo sintomo di un trattamento differente e c'è l'amore, non corrisposto, altalenante.
Ma il libro di Fante ha di diverso questo essere assolutamente impotente nei riguardi dell'amore e non riduttivamente in senso fisico ma anche nel modo di concepirne una grandezza e un assoluto che risolve tutto nella mente, la sua.
Camilla non è, potrebbe anche non essere lei o com'è, non è Camilla che ama Arturo Bandini, lui è innamorato delle sue possibilità come scrittore, lui vorrebbe una musa ma si limita a vivere un rapporto tormentato e fasullo con una ragazza messicana, impolverata anch'essa, anch'essa ai margini e destinata alla polvere infine.
La fuga dall'odore di cera della religiosità familiare ma anche il continuo esserne attratto e posseduto è un altro dei temi portanti con la variabile tipicamente cattolica preconciliare della colpa che si dilata astraendosi da lui per abbracciare una dimensione globale, il terremoto di Los Angeles come controparte di fronte ad un peccato di adulterio.
E sì, l'ego di Arturo Bandini e grande anche nel peccato, nella consapevolezza che le sue azioni vanno al di là dell'albergo di Bunker Hill, che si sviluppa in "bassezza" coi piani che vanno sottoterra anziché in alto, ma che hanno un valore universale perché lui è un grande scrittore, adorato da un mecenate potente, lui è l'autore del racconto, il cagnolino ride "che non parla di cani ma parla di uomini"... Solo che ci vuole tempo, ha bisogno di ancora idee per essere consacrato, per finire il suo romanzo, per abbracciare una donna vestita d'ermellino.
E Bunker Hill si sviluppa verso il basso, come verso il basso si affondano i personaggi di Fante, gli abitanti di una Los Angeles lontana dai Lustrini Holliwoodiani ma non cattivi, capaci al massimo dell'efferato assassinio di un vitello,solo con negli occhi la loro verde terra natale, il resto è deserto.
Lo stile si mescola toccando delle punte veramente di estremo lirismo nel racconto della dannazione o del rapporto col divino (forse non ha o non vuole altri mezzi per rapportarsi con ciò che non capisce perché troppo alto e sacro) e viceversa andando a sfregiare la carne con metafore ardite o sfiorando l'ilarità in molti punti.
Gran bel libro e consigliatissimo.
E adesso mi aspettano gli altri della saga di Bandini e accidenti a me che snobbavo John Fante.

Chiedi alla polvere
Di John Fante, Maria Giulia Castagnone (Traduttore)
Einaudi, 2004

sabato 4 luglio 2009

Lasciami leccare l'adrenalina

Ven 3 Lug – Mondo Ichnusa: Spiaggia del Poetto, Cagliari
Non vedevo gli Afterhours live dal lontano 2003 e ne è passato di tempo e di cambi di formazione.
Una sola cosa non è passata, la gente che chiede a gran voce STRA-TE-GIE STRA-TE-GIE e Manuel che con il suo solito aplomb risponde "E' bello stare legati ad una sola canzone, voglio essere ricordato così, che ogni volta che sta per partire un pezzo tutti inizino a chiedere Strategie",
Va bene Manuel, ti ricorderemo così e in splendida forma nonostante i tuoi 43 anni suonati.
Ovviamente gli Afterhours Strategie non l'hanno fatta neanche stasera.
Ma non ero lì per una canzone, ero lì per gli Afterhours, di nuovo...e ancora
pubblico eterogeneo, da festa della birra, seppur Ichnusa e questa è cosa buona e giusta, ma anche e soprattutto fans dei milanesi.
Luna quasi piena e, dopo la giornata più calda che fino ad ora ci ha offerto quest'estate anche un venticello dal mare, tanto per gradire.
Location perfetta se non fosse stato che gli After suonavano contro vento e chi era indietro non sentiva poi tanto o, almeno, questo riportano le leggende metropolitane, io ero talmente vicina alla cassa destra del palco che il mio orecchio sinistro ancora m'implora pietà.
Un inizio totalmente inaspettato, ore 22 e 30, con buona pace di chi “tanto non iniziano prima delle 11 e mezza” se ne stava fantasticamente incolonnato in viale Poetto tra “la sinfonia dei…clacson” e
meno male, forse è stato meglio così, fare anticamera non mi è mai piaciuto poi molto e mi ha salvata dalla tentazione subdola del banchetto del merchandising che è tradizione molto bella quanto dispendiosa.
Dove si va da qui apre le danze che ancora si stava al chioschetto Ichnusa tra l’incredulità degli astanti e “ma forse stanno solo facendo i ceck” tutti ci aspettavamo i Sikitikis che, a questo punto, devono aver fatto un matinée (scoprirò poi che non dovevano aprire ma solo fare un pezzo come “ospiti”); l’esodo verso il palco comincia massiccio e ovviamente finisco con davanti uno di duemetriedieci.
Meglio, mi godrò l’ascesa al palco, la montagna da scalare, l’avanzamento lento lungo la spiaggia, ‘che se ad una cosa ci tieni devi anche guadagnartela.
Il paese è reale a seguire, già mi fa intravedere D’Erasmo e le scarpe di Ciccarelli ma “dir la verità è un atto d’amore” e, nonostante l’attitudine sia molto rock, Manuel appare un po’ “cirdino” (cit.) e soprattutto distante, ringrazia a mezza voce e infila un pezzo dietro l’altro, senza pause.
Oh bè, si scioglierà, penso, e intanto lasciami leccare l’adrenalina scalda il pubblico e ci proietta tutti in atmosfera molto Afterhours old style con braccia al cielo e cantato stonato annesso da parte del pubblico, ovviamente .
Gli autoctoni Sikitikis vengono invitati sul palco, e fanno una male di miele urlatina anzichenò con Diablo che per l’occasione è stato posseduto dallo Spirito Guida di un Canguro ma il pezzo funziona, la gente canta più di lui (come sia possibile questo è inspiegabile in quanto in natura non pare esistere essere che riesca ad urlare più di Diablo) e Manuel gli fa i controcori, sì, dai.
Diablo va a casa con un bel sette e anche qualcosa di più e io avanzo di due caselle così posso finalmente vedere il frontman o meglio i suoi capelli, si farà vedere in viso giusto due volte in tutta la nottata.
La sottile linea bianca arriva a scardinare certezze, a far male di più e meglio che su disco ed inizierà così la lunga saga dell’atroce sventramento che gli After riescono a compiere nei loro pezzi analizzando l’umano sentire ed entrando a fondo e sottopelle alle dinamiche amorose specialmente come accade per esempio con Sulle labbra.
Vincendo la tentazione di fare harakiri con il mio spillone per capelli riesco a resistere a Quello che non c’è, forse la loro canzone più dolorosa.
Poi tutto si perde e si confonde.
Ricordo una vedova bianca non proprio all’altezza con molte sbavature e anche orrori d’intonazione e lì vedo uno pelato al basso, sono miope, ebbene sì, lo ammetto, ma già così tendo ad escludere che sia Dell’Era colto da un’improvvisa calvizie.
Scoprirò poi, durante la presentazione del gruppo, che: “alla batteria Giorgio Prette, alla chitarra Giorgio Ciccarelli, al violino Rodrigo D’Erasmo, al basso…(ahimè non lo ricordo) e all’ospedale Roberto Dell’Era” e Manuel aggiunge che questa battuta idiota la fa sempre anche se Dell’Era dall’ospedale e già uscito da un po’.
Ma torniamo a noi, o meglio a loro.
In ordine non proprio corretto e me ne scuso, arrivano E’ solo febbre e qui il violino un po’ più sporco di Ciffo si fa rimpiangere un po’ nonostante l’impeccabilità D-Erasmiana, in caduta libera una Bungie Jumping senza elastico e Non è per sempre con immancabile coro da sotto il palco come la dura legge del singolo di successo reclama.
Neppure carne da cannone per Dio e Naufragio nell’isola del tesoro sono più che aspettate e all’altezza come del resto Musa di Nessuno misurata e Ballata per la mia piccola iena che da luogo a un personalissimo e interiore delirio.
Manuel si scioglie un po’ solo dalla seconda parte in poi quando vengono introdotti i Dorian Gray una band locale che suona un proprio pezzo con gli After, a quel punto c’è chi tra il pubblico si lima le unghie e chi si prende una pausa sigaretta, i più optano per una capatina al vicino chiosco spaccio di Ichnusa.
Meno male finisce in fretta e riprende con Tema: la mia città, e il sangue di Giuda che pare stillare nuovamente giù dal palco.
Poi Sui giovani d’oggi ci scatarro su, senza scatarrate a mo’ di lama per fortuna, ma, in compenso, con una variante sul testo “come pararsi il culo e la coscienza è un vero sballo,
sabato C’E’ SANREMO e lunedì al leonkavallo”
Un momento di autoironia e di risposta forse ai molti fans che hanno criticato la loro partecipazione al festival.
Poi una canzone in inglese di non meglio definita provenienza con Manuel al piano, anzi, se qualcuno sapesse, bè, che parlasse e la gente sta male.
Non mi ricordo con che pezzo hanno chiuso questo secondo blocco, credo con Voglio una pelle splendida ma se così fosse ero talmente impegnata a chiedere di salvarmi che non lo so più, ma ricordo benissimo quanto avrei voluto che uscissero di nuovo, almeno per bye bye bombay e ci sono molti modi, ma non ci speravo.
E invece…
Viene fuori Manuel a salutare il pubblico sorseggiando qualcosa a metà tra una birra scura senza schiuma e una 0,40 di vino, ma di questi misteri non c’è dato sapere, e riprende subito con byebye Bombay per l’appunto dove “io, non tremo è solo un po’ di me che se ne va” viene cantata dal pubblico in un enorme cerimonia catartica di liberazione ancora più sentita da chi è isolano e sa cosa vuol dire lasciare un porto.
Poi Manuel si siede al piano e: “è arrivato il crampino delle 11 e mezza, Giorgio non sente la batteria, Dell’Era è all’ospedale ma la vita è meravigliosa” ed attacca una what a wonderful world un tantinello sopra le righe.
Così c’è dato scoprire come Manuel in una stessa sera possa essere annoverato tra i migliori rockers e i peggiori crooners.
Ma rimane al piano, e quasi non ci speravo più, rimane al piano per l’ultimo pezzo, quel pezzo, ci sono molti modi è straziata e straziante, sussurrato e poi gridato, perfino il pubblico è un po’ più muto e tende a non cantare con lui.
Poi se ne vanno e alla minaccia dell’arrivo di un dj locale la spiaggia si svuota.
La sensazione che se ne ha alla fine è quella di un concerto rock sulla spiaggia, non filologico, anche un po’ sbavato, ma comunque curato e abbastanza lungo, (più di due ore) ma sì, in spiaggia ci sta.
Non avevo ancora sentito live D’Erasmo e mi è piaciuto molto, forse anche più pulito e tecnico del suo predecessore (ma… Ciffo, mi manchi!), rammarico per non avere mai sentito live con Gabrielli e mi sarebbe tanto piaciuto sentire e vedere Dell’Era che su palco pare si diverta e diverta.
Peccato per Manuel che comunque non si è concesso poi molto ma, a questo ci aveva già abituati ha gestito comunque il concerto con molta professionalità più che sentimento.
Per il resto la band resiste all’età, resiste alle critiche ed è ancora diverse spanne superiore in live a parecchi colleghi.
Tutto sommato un bel concerto.
“Torneremo scorrere”?
Ebbene sì
E spero presto.