lunedì 18 ottobre 2010

LA SINFONIA DEL SENZA - Primo Movimento

2 La rota

Prima di tutto viene il freddo.
Secco, totalizzante, parte dalle ginocchia dai polpacci, corre in un lunghissimo brivido ma è quando raggiunge le spalle che diventa inafferrabile.
Allora tutto è una morsa di gelo che avvolge completamente e al quale ci si può solo arrendere ballando la danza del tremore, acciambellati, perché le ossa si scontrino l’una con l’altra per tenere il tempo.
Non c’è nient’altro che il freddo che continua ad avvolgere finché non entra dentro ed è impossibile da scrollare via una volta che ha raggiunto il cuore e anche i battiti vanno al tempo del tremore.
Come se a tenerti in vita fosse una sostanza esterna, come se non ce la facessi più con i cani che ti mordono la pancia.
Da dentro.
Quindi pare una soluzione rimanere arrotolati su sé stessi in attesa che la mancanza venga colmata e sai che le scelte sono sempre due.
Dicotomiche.
Morire o guarire.
Per tutto il tempo dei capelli strappati e delle braccia divise dal corpo, poi l’apnea e l’aria che se ne va.
Il momento del palliativo, della sostanza simile, dell’effetto di “forse può andare bene anche così” e invece no, non è la stessa cosa, lo senti ma ti adegui e nell’adeguarti, urli.
Morderti i polsi, perché un altro dolore ti faccia dimenticare di quello più forti, dove le vene ostentano un battito che vuole farti credere che vivi ancora.
Tra le due alternative la prima è quella più vitale.
E no che non bastano i surrogati, è proprio quella sostanza che vuoi, quella stessa che ti rendeva una creatura meravigliosa prima che decidessi di farla finita.
O che qualcuno decidesse per te.
Ma non ti prendere in giro, non ora che sei a buon punto, lo sapevi che quel bene era sbagliato, lo sapevi che ti avrebbe giovato solo per un momento e adesso ci ripensi, ma era lo stesso stare bene che avevi atteso da una vita, l’apice dove guarire e un imposizione del mondo e, forse tu, fra le due, avresti scelto la più vitale.
Poi il controllo costante di chi “ti vuole bene veramente” che ti allontana dalla pericolosa dipendenza, che fa di tutto per toglierti dalla testa quella roba che ti ha rubato l’anima.
Non sei più quello di prima, lo vedono gli altri nei tuoi occhi sempre altrove, lo vedi tu nella tua estasi.
Poi i muscoli si irrigidiscono e continui a dire cose incosulte e inconsuete: il delirio.
Sbatti la testa al muro e ti appoggi alle porte per sfondarle, perché vuoi la tua dose di benessere, la rivuoi.
Subito, perché della seconda possibilità non te ne frega nulla, subito, ben venga la prima scelta anche per solo un altro momento, morire così, piuttosto che non aver mai vissuto.
Nessuno alle porte, troppe chiavi a chiuderle e tu sei troppo debole per insistere.
E allora dormi, un sonno pieno di incubi e di sudore, un sonno pieno di mancanza e di solitudine, il sonno dei perduti dove affoghi senz’acqua perché anche quella ti è stata negata o così ti pare, come ogni gesto della quotidianità senza la sua mediazione.
Succede che poi un giorno ti alzi e non ti fa più male nulla.
Succede che ti alzi e riesci anche a sorridere a qualcun altro.
Succede però che se pensi a quel tempo, diventa per te impossibile non andare a cercarla.
Succede che cammini per strada, ma niente è più uguale a prima di allora.

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